Pochi giorni fa, l’episodio della cittadinanza negata all’operaio marocchino che non sapeva leggere il testo del giuramento. Lui non ha imparato ancora l’italiano, noi non abbiamo imparato ancora niente, dopo 20 anni di immigrazione
È già successo e continua a succedere. Qualche giorno fa, in un comune del Nordest, un operaio marocchino di 47 anni, da 21 in Italia, non è riuscito a leggere il testo del giuramento che rende efficace, a sei mesi dalla sua emanazione, il decreto che lo riconosce cittadino. Poche parole – “Giuro di essere fedele alla Repubblica italiana e di osservare la Costituzione e le leggi dello Stato” – ma evidentemente fatali. Le cronache dicono che, a fronte di una così grave violazione dell’adempimento definito dalla legge 92/1991, il sindaco, previa consultazione della locale prefettura, ha deciso di “concedere” all’operaio sei mesi di tempo per mettersi in regola. Cioè per imparare a leggere l’italiano. Solo allora potrà esserci una nuova cerimonia, e speriamo che lo strano studente rimandato a settembre riesca, questa volta, a convincere i suoi valutatori. Così una giornata che doveva essere di festa per entrambe le parti, sia per il neocittadino (consultare, per credere, i tanti video dell’evento che circolano sul web ad uso di amici e parenti vicini e lontani) sia per la comunità, si è trasformata in una giornata amara: di mortificazione da un lato (l’operaio ha due figli, entrambi in età scolare, entrambi, si immagina, capaci di leggere e scrivere in italiano), di miseria burocratica dall’altro. Non solo, si è raddoppiato fino al totale di un anno il tempo di attesa dal riconoscimento formale del diritto alla cittadinanza alla sua concretizzazione effettiva. Non in tutti i comuni italiani, per fortuna, si fa così. Tanti sindaci, come i buoni parroci dell’Italia poco alfabetizzata di qualche decennio fa, agli interessati fanno avere per tempo il testo del giuramento in modo da evitare che l’emozione e l’incerto italiano possano guastare la festa. Ma il problema non è, non dovrebbe essere, che a Vigonovo, provincia di Venezia, il primo cittadino sia casualmente un leghista. E neppure che in campagna elettorale il bisogno di gridare alto il richiamo della foresta induca troppo spesso la politica a dare il peggio di sé. Il problema è che vent’anni e più di processi migratori che hanno trasformato la società – il mondo del lavoro, la nostra vita familiare, le nostre scuole – non sono bastati, ai governi e ai parlamenti italiani, non solo per migliorare una norma sulla cittadinanza che risale al 1991, ma neppure per costruire ordinari e sensati strumenti di agevolazione dell’integrazione.
È curioso, per esempio e sempre per restare nel campo circoscritto della lingua di Dante, che da noi l’obbligo di dimostrare di padroneggiare un certo livello di conoscenza dell’italiano sia previsto non per ottenere la cittadinanza ma per regolarizzare la residenza, cioè per la conferma del permesso di soggiorno dei neoarrivati e, quando ne sussistano le condizioni, per il permesso CE di lunga durata. Un ribaltamento rispetto alla maggior parte dei paesi europei di forte immigrazione in cui le competenze linguistiche – e anche altri tipi di conoscenza del paese di approdo, delle sue istituzioni, della sua storia e della sua cultura – sono richieste piuttosto a chi ha deciso di mettere nuove e definitive radici, diventando parte effettiva della terra in cui abita, lavora, cresce i figli. Una richiesta legittima e sensata, visto che senza strumenti autonomi di comunicazione non si conosce e non ci si può far conoscere, non si può interagire correttamente e in modo complesso, non si possono imparare diritti e doveri, vivere e convivere alla pari. Essere cittadini, si sa, non è la stessa cosa che potere, per un certo tempo, lavorare o studiare in un paese diverso da quello di origine. È soprattutto per questo strabismo italico che dovevano essere contrastate le disposizioni dell’“accordo di integrazione” di Maroni. Per la loro evidente intenzione di mettere altri ostacoli a chi arriva, con un esame di italiano entro due anni (e un grottesco corso di educazione civica entro tre mesi) dal primo permesso di soggiorno, non – come purtroppo è diffusamente successo – perché dover imparare bene la lingua del paese in cui si decida di vivere sia, da parte del paese che accoglie, una pretesa irragionevole o crudele. Senza competenze linguistiche è più difficile trovare, conservare, migliorare il lavoro, si è più esposti a incidenti ed infortuni, si accede poco e male ai servizi, si rischiano comunità chiuse e separate, e i figli, anche i nati qui, hanno più difficoltà nei percorsi scolastici e professionali. Perciò, senza lo spauracchio di assurde sanzioni, in altri paesi l’offerta di formazione linguistica e culturale è ampia, strutturata, qualificata, e anche i datori di lavoro sono tenuti ad agevolarne la frequenza. Ma da noi, anche a sinistra, di tutto ciò non c’è stata e non c’è ancora piena consapevolezza. Oppure c’è, ma si ha troppa paura, a farne oggetto di confronto pubblico, di perdere consensi. E gli effetti negativi ci sono, non solo in termini di scarsissimi investimenti in scuola e formazione linguistica e professionale per i migranti, ma sul terreno più largo che oggi dovrebbe interessare di più, la costruzione delle condizioni normative, sociali e culturali dell’integrazione.
Di tutto ciò si parla poco, male, in modi per lo più parziali e reticenti. La riforma della legge sulla cittadinanza si è arenata colpevolmente nel 2009 e oggi, in campagna elettorale, il tema è tra i più sottovalutati e trascurati. L’attenzione, in una fase in cui sono moltissimi i migranti per lavoro che tornano indietro mentre si moltiplicano invece i rifugiati e i richiedenti asilo, è ancora su come ostacolare-sanzionare-respingere gli ingressi che le nostre stesse disposizioni costringono a non essere regolari. Sono decine di migliaia i minori stranieri non accompagnati che il blocco dei trasferimenti statali ai Comuni rischia di far restare senza adeguati sostegni, e in balia del peggio che la criminalità italiana e straniera può determinare. In questo quadro anche lo ius soli per i minori figli di stranieri ma nati qui – magari, come si dice sempre più spesso, “temperato” dalla frequenza in Italia di un intero ciclo di istruzione – appare una proposta dall’impatto soprattutto simbolico. Più facile e più digeribile di altre (e tuttavia finora non attuata) perché si tratta di bambini, dei tanti bambini e ragazzi compagni di banco e di avventure dei nostri figli e nipoti. Ma non è solo sulle gambe delle seconde generazioni, che pure devono premerci per il futuro stesso del nostro paese, che può camminare l’intera questione dell’immigrazione.