La rotta d’Italia. Il vortice della campagna elettorale semplifica tutto, ma i problemi sono complessi e serve un lento apprendimento per cambiare i rapporti tra forme di partecipazione e politica istituzionale
Siamo entrati rapidamente nel pieno della fase pre-elettorale, con urgenze di decisione e comunicazione e margini di tempo davvero ridotti. L’impressione è che si guardi alle scelte dell’elettorato come si è fatto da sempre: si insiste sui limiti e gli errori delle fasi precedenti, si annunciano “soluzioni”. Idee chiare, promesse e impegni. Si dedica molto tempo a presenze televisive e a dibattiti; spazi (e soldi) per cartelloni e manifesti.
Penso che sarebbe bene guardarla, questa campagna elettorale, come un’occasione per collocarci con maggiore consapevolezza nella fase che ci troviamo a vivere. E per impegnarci a cogliere i cambiamenti – possibili, auspicabili – che oggi forse si presentano.
Innanzitutto lo sguardo sui “soggetti”, o “attori” (così nel linguaggio sociologico): riconoscere che una parte crescente dell’elettorato è fatta di persone informate, impegnate, che hanno avuto occasioni di mobilitazione e partecipazione. C’è un’alta percentuale di indecisi, o che dichiarano di non voler andare a votare. Non tutti sono comportamenti di disinteresse, di pigrizia: c’è di più.
Diminuisce un’altra componente, nei decenni scorsi rilevante: quelli inquadrati in un’organizzazione di partito.
Come tutti questi si formano le loro idee; come si collocano nella società e nella politica: importante rivolgere attenzione a questi dati di cambiamento.
E sarebbe soprattutto utile, io penso, portare l’ attenzione sulla fase successiva: in quali condizioni. dopo la campagna e le elezioni, si affronta l’”agenda”. Ci saranno pressioni per – e c’è il rischio di – risposte affrettate, di decisioni volte al solo obbiettivo dell’ “accontentamento”. Non tutti gli eletti (quelli che entrano per la prima volta nelle istituzioni, i più giovani, una parte delle donne) avranno fin da subito le competenze e gli strumenti, e di fatto la possibilità, di rispondere alle aspettative. Si tratta di organizzare le priorità, le risorse disponibili; anche, per molti, di entrate in strutture di organizzazione e di stabilire rapporti del tutto, fino a quel momento, sconosciuti.
Si entra in un ”ruolo nuovo”: ma subito, da ogni parte, aspettative, pressioni. C’è molto da imparare; ci vuole tempo. Rendersi dunque conto delle condizioni in cui si realizza questo “avvio”: potremmo forse definirlo come una fase di apprendimento.
Proprio in un momento di pesanti difficoltà come quello che stiamo vivendo; e perché ci saranno “nomi nuovi” (dunque persone non inserite “nel gioco” – complesso, ricordiamolo – della politica); e proprio perché le aspettative e le voci della “democrazia partecipativa” si faranno sentire, ci troveremo in un passaggio del quale – così potrebbe essere – non c’è piena consapevolezza. In situazioni in cui si è tenuti ad affrontare scelte e decisioni potrebbero essere importanti anche rallentamenti, pause di riflessione. Fin da subito, c’è molto da imparare. Ma questo non è previsto. E ci sono conseguenze: “usure rapide” del consenso, della fiducia, della “pazienza” dell’elettorato: nel dibattito francese si è descritto così il “dopo Hollande”. Per molti, soprattutto per quelli che si trovano ad essere “nuovi venuti”, importante prevedere che ci sia una “fase di apprendimento”: ma, questo, è un passaggio del tutto ignorato. E invece è davvero rischioso, nella situazione attuale, non prevederne le possibili conseguenze.
Dunque, i “cento giorni”: il tempo per riuscire ad ambientarsi nelle pratiche e nei rituali delle istituzioni: la politica, “un mondo a parte” (così è stato descritto). E in parallelo va messo messo in luce l’altro dato proprio del sistema sociale e politico attuale: forme e manifestazioni della “democrazia partecipativa”, della ”democrazia di base” .
In questo “modello” ha voce una pluralità di “attori”: non necessariamente è possibile (o si è preparati, disponibili a farlo) tener conto delle diverse aspettative ed esigenze (e pressioni, certo). Partecipare, avere voce: certo, componenti chiave di un sistema democratico. Ma importante è capire come riuscire a farlo funzionare, questo sistema. Come coordinare, come stabilire priorità. Processi e pratiche che non sono da dare per scontate.
In una situazione come quella che si avvia per i prossimi anni peseranno le molteplicità – e anche contrapposizioni – di programmi e di interessi. I cambiamenti in atto (alcuni, imprevedibili) potranno richiedere che si riorganizzi e modifichi – anche radicalmente – l’agenda. Già lo si è visto, negli anni scorsi, in molti casi. E siamo parte del complesso contesto dell’ Europa, siamo nel mondo globalizzato. Certo si dovrà tener conto di circostanze e condizioni “esterne”. Nell’informazione che ci viene proposta (vale per la maggior parte dei media) siamo totalmente immersi nel “nazionale” (nel “locale”, anche). Si omette, si seleziona, si manipola anche: tutto questo riguarda la campagna elettorale, ma non solo, è evidente.
Un pesante limite, non contribuire a far cogliere i complessi cambiamenti in atto come un’occasione. Non viene colta quella che considero appunto un’occasione: per collocarci con maggiore consapevolezza nella fase che ci troviamo a vivere. Come un possibile passaggio, per la nostra società, di “apertura culturale”.
Certo, al centro di tutto, c’è il futuro. Ma che si facciano previsioni e promesse in questi termini proprio non ha senso.
Non è credibile. Cosa significa dire futuro? Si possono avere proposte, e impegnarsi, per il “breve” o forse – con cautela – per il “medio termine” (short/ medium term, così nella formulazione corrente). Vale per coloro che sono tenuti ad elaborare misure e politiche; e anche, per le aspettative della “base”. Studi e letture teoriche sui temi della “democrazia di base” hanno portato l’attenzione su come pesino differenti posizioni, divergenze, interessi in conflitto. Le istituzioni non sempre sembrano in grado di attrezzarsi per affrontare questo passaggio.
E il “futuro” di cui da tanti sentiamo parlare: è il “più lungo termine” (il longer term). Evidente che non disponiamo delle conoscenze e delle risorse necessarie per prevederlo, programmarlo. Ci vuole cautela. E, anche qui, apprendimento.