È curioso che ci si preoccupi dei minor consumi dei fruitori di alti redditi e non degli effetti provocati da “riforme” che lasciano senza entrate più di 300.000 esodati e che sospingono fino ad oltre il 35% il tasso di disoccupazione giovanile
La vicenda dei cosiddetti esodati e il continuo manifestarsi di problematiche economiche e sociali ad essa collegate costituiscono una esemplificazione delle gravi contraddizioni e degli effetti controproducenti delle politiche economiche e sociali attuate nel nostro paese; effetti che sono stati esasperati dall’Agenda Monti.
In una situazione di crisi economica così profonda, diffusa e protratta che la rendono epocale, mentre il sistema produttivo è sempre più incapace di creare le posizioni lavorative che per quantità e qualità sarebbero necessarie ad assorbire l’offerta di lavoro esistente e a soddisfare bisogni anche primari che sempre più rimangano inappagati, un punto di riferimento e di masochista soddisfazione della politica economica e sociale attuata nel nostro paese continua ad essere l’innalzamento dell’età di pensionamento. In presenza di alti tassi di crescita, di elevato invecchiamento demografico e di scarsità della persone in età attiva disponibile a lavorare, incentivare l’aumento dell’età di pensionamento sarebbe sensato; ma non c’era bisogno di grandi conoscenze tecniche per capire che dal combinato disposto di una grave e crescente insufficienza di posti di lavoro e dell’imposizione di un prolungamento consistente e repentino della vita lavorativa sarebbero derivati gravi problemi sia per i giovani – i cui tassi di disoccupazione non a caso sono esplosi – sia per coloro che vicini all’età di pensionamento e già espulsi dal mondo produttivo sarebbero incappati nell’assenza prolungata di una fonte di reddito.
La settimana scorsa ha fatto notizia l’informazione data dall’Inps che le pensioni liquidate nei primi nove mesi del 2012 sono diminuite del 35% rispetto allo stesso periodo del 2011. Sono andate in pensione circa 110.000 pensionati in meno dell’anno precedente, ma per effetto non della riforma Fornero (i cui più sostanziosi effetti si avranno nei prossimi anni), bensì per i provvedimenti presi in passato dal governo Berlusconi e da quello precedente di centro sinistra. Quel minor numero di pensionamenti è stato prima perseguito e adesso salutato come segno dell’accresciuto “rigore” della politica economica italiana, ma implica un’ulteriore riduzione dei posti di lavoro disponibili per i giovani e l’aggravamento del problema dei cosiddetti esodati. La notizia data dall’Inps – niente affatto sorprendente – è anche la conferma che l’ulteriore e ancora più accentuato allungamento dell’età di pensionamento deciso da ultimo con la riforma Fornero ha versato altro olio bollente sulle ferite economiche e sociali sempre più profonde generate dalla crisi; ferite che avrebbero bisogno di tutt’altre ricette. D’altra parte, gli interventi in materia previdenziale che si susseguono da un ventennio al ritmo di circa una ogni due anni hanno perso da molto tempo la loro giustificazione di risanare finanziariamente il sistema pensionistico pubblico il quale, già dal 1998, presenta un saldo attivo tra entrate contributive e prestazioni previdenziali nette; l’ultimo dato disponibile riferito al 2010 indica che l’avanzo corrente è stato di circa 26 miliardi di euro, pari all’1,7% del Pil.
le riforme che continuano a prelevare risorse dal mondo del lavoro e della previdenza non hanno dunque una giustificazione finanziaria settoriale (o “tecnica”), ma rappresentano una scelta redistributiva di segno politicamente conservatore ed economicamente controproducente per l’intero sistema produttivo. In questo contesto, è paradossale che ci si preoccupi degli effetti negativi sulla crescita economica derivante dalla recente proposta di modificare la legge di stabilità prelevando un 3% sui redditi superiori a 150.000 euro per finanziare misure a favore degli esodati. Non v’è dubbio che un aumento delle imposte possa incidere negativamente sui consumi (e sulla crescita e sull’occupazione), ma ciò è tanto più vero quanto minori sono i redditi colpiti; se poi si effettua una redistribuzione dai redditi più elevati a quelli più bassi (che hanno una maggiore propensione al consumo) l’effetto complessivo sui consumi è nettamente positivo. È “curioso” che ci si preoccupi dei minor consumi dei fruitori di alti redditi e non degli effetti provocati da “riforme” che lasciano senza entrate più di 300.000 persone a cavallo tra salario e pensione e che sospingono fino ad oltre il 35% il tasso di disoccupazione giovanile.
L’ulteriore paradosso è che queste “riforme” vengono spesso accompagnate da argomentazioni che mettono in conflitto tra loro giovani e anziani mentre entrambi, come i capponi di Renzo, pagano insieme i costi di queste politiche che dovrebbero contrastare la crisi ma che in effetti l’accentuano facendone pagare i costi ai lavoratori e ai ceti più deboli.