L’intervento sulla Costituzione per “ampliare la libertà d’impresa” è inutile. I problemi delle imprese italiane non stanno nella bassa natalità ma nell’alta mortalità
La modifica dell’articolo 41 della Costituzione, caldeggiata dal ministro Tremonti per ampliare la libertà di impresa, si sta concretizzando in un emendamento alla manovra finanziaria che snellisce le procedure necessarie per avviare nuove iniziative imprenditoriali. Scopo di questa nota è mostrare che ciò che viene spacciato come intervento “a costo zero” che stimolerebbe l’economia è, in realtà, un’inutile operazione demagogica.
Tra i tanti e insoluti problemi che, da sempre, affliggono l’Italia, non vi è quello di una scarsa attitudine all’imprenditorialità. E’ vero che nell’ultimo decennio i tassi di natalità delle imprese sono diminuiti rispetto a quanto avveniva alla fine degli anni Settanta. Trenta anni fa il processo di formazione di nuove imprese era più intenso nella manifattura (la “terza Italia” era ancora in formazione) mentre nell’ultima decade ha riguardato principalmente il settore dei servizi (concentrato nelle aree urbane). In quest’ultimo ambito il nostro paese non appare particolarmente dinamico e ciò ci aiuta a comprendere perché, mentre nel passato l’Italia registrava tra i più alti tassi di natalità d’impresa d’Europa, oggi non è più così.
Indici di demografia d’impresa (media 2004-2006)
Tasso di natalità delle imprese (a) |
Tasso di mortalità delle imprese (b) |
Tasso netto di natalità (a)-(b) |
|
Austria |
7.57 |
6.12 |
1.45 |
Francia |
9.44 |
6.89 |
2.56 |
Italia |
7.75 |
6.99 |
0.56 |
Spagna |
10.01 |
6.43 |
3.74 |
Svezia |
6.90 |
5.57 |
1.17 |
Regno Unito |
13.78 |
10.65 |
2.96 |
(a) Percentuale di imprese che iniziano l’attività su quelle esistenti (b) Percentuale di imprese che cessano l’attività su quelle esistenti. Fonte: Eurostat.
La tabella propone un confronto tra alcuni paesi europei per i quali sono disponibili dati omogenei relativi al periodo 2004-2006. In termini di tassi di natalità d’impresa, riportati nella prima colonna, l’Italia non figura al top. Va però evidenziato che essa non è superata soltanto da un paese inseguitore come la Spagna, ma anche da Francia e, soprattutto, Regno Unito. In questo ultimo caso è evidente che la forte propensione ad avviare nuove imprese si concentra nel settore dei servizi.
La relativa debolezza dell’Italia in termini di tassi di natalità e il fatto che questi siano diminuiti nel corso del tempo possono essere imputati alla presenza di maggiori ostacoli burocratici per avviare un’azienda? La risposta è senza dubbio negativa se si guarda al confronto temporale dato che, da trenta anni a questa parte, le procedure per iniziare nuove attività si sono decisamente snellite. Ma anche se si opera un confronto tra paesi europei il ruolo giocato dal peso della burocrazia appare del tutto ininfluente.
La “Direttiva servizi” adottata nella primavera del 2006 dal Consiglio europeo stabiliva, relativamente al tempo necessario per avviare una nuova azienda, che questo fosse ridotto ad una settimana. Il governo italiano ha comunicato alla Commissione europea di aver ampiamente conseguito tale obiettivo nel 2008 (si veda http://ec.europa.eu/enterprise/policies/sme/business-environment/start-up-procedures/progress-2008/). Probabilmente ciò si è verificato in molte aree geografiche e per molti settori di attività: dire però che in tutte le province del nostro paese e per tutte le tipologie di attività economica occorrono 4 giorni per aprire un’azienda mi pare azzardato. In tutti i casi, anche ammettendo che ci voglia il doppio del tempo segnalato alla Commissione, non raggiungeremo mai il record negativo della Spagna dove occorrono 17 giorni e mezzo per completare le procedure di iscrizione. Eppure i tassi di natalità delle imprese iberiche sono significativamente superiori a quelli italiani. In conclusione, la propensione all’imprenditorialità non sembra essere influenzata dalle lungaggini burocratiche a cui sono sottoposti gli aspiranti imprenditori. Ciò che rende più difficile avviare un’azienda in Italia è semmai il costo: questo varia a seconda della tipologia di impresa (più basso per imprese individuali, più alto per società di persone e capitali) ma si aggira, mediamente, sui 2000 euro. Una cifra ampiamente superiore alla media europea (460 euro, secondo la Commissione europea; si veda il sito web indicato in precedenza). Ne deriva che se il governo italiano volesse facilitare il processo di formazione di nuove imprese dovrebbe, in primo luogo, ridurne il costo: ma ciò implicherebbe ridimensionare le parcelle dei notai e rinunciare a parecchi introiti in termini di tasse di registrazione. Non sarebbe, quindi, un’operazione “a costo zero” e non mi pare che Tremonti abbia accennato a questa possibilità.
In tutti i casi, abbattere i tempi e i costi di registrazione non produrrebbe risultati eclatanti. E’ noto, ad esempio, che i tassi di formazione di nuove imprese sono influenzati dal ciclo economico: negli anni di crisi si riducono per poi risalire nelle fasi espansive. Se le aspettative economiche sono negative una parte di potenziali imprenditori si tira, giustamente, indietro e un abbattimento degli oneri burocratici e dei costi difficilmente modificherebbe la loro decisione. Ma, a prescindere dal ciclo economico, il processo di formazione di nuove imprese rallenta quando le probabilità di sopravvivenza sono basse. Ed è questo il punto essenziale.
La caratteristica negativa del nostro paese, infatti, non sono i tassi di natalità d’impresa declinanti o più bassi della media europea, ma gli elevati tassi di mortalità. La seconda colonna della tabella mostra che in termini di cessazioni d’azienda l’Italia è superata solo dal Regno Unito, il quale però è di gran lunga più attivo dal punto di vista della natalità. Ne consegue che, nel nostro paese, il tasso netto di natalità di impresa (differenza tra le percentuali di imprese neo-nate e cessate) risulta il più basso tra i paesi considerati (si veda l’ultima colonna della tabella).
In sintesi, il problema di demografia imprenditoriale di cui soffre l’Italia è che, anche nelle fasi “normali” dell’economia, i tassi di mortalità restano troppo elevati. Probabilmente, troppe iniziative imprenditoriali vengono avviate senza valutare in modo adeguato le future prospettive aziendali. Ne consegue che intervenire, come intende fare il governo, per rendere ancor più spedite le procedure per aprire nuove aziende non risolve il problema ma, anzi, rischia di aggravarlo. Ciò che dovrebbe essere fatto, invece, è facilitare l’entrata di aziende con progetti imprenditoriali ben ponderati (offrendo, ad esempio, consulenze gratuite o a basso costo agli aspiranti imprenditori) e, quindi, predisporre misure a sostegno della loro competitività e crescita dimensionale. Questi sono gli interventi che una politica industriale lungimirante dovrebbe privilegiare. In loro assenza, modificare l’articolo 41 della Costituzione in nome di una maggiore libertà di impresa sarebbe un’operazione inutile, demagogica e, per certi versi, dannosa.