Non basta tamponare la crisi con misure redistributive. Occorre governare l’innovazione tecnologica e le dinamiche demografiche
Su “il manifesto” del 1 luglio 2010, Guido Viale richiama le varie ipotesi politiche che vorrebbero indicare una via d’uscita alla presente crisi economica riassunte nella posizione di Riotta a proposito di Pomigliano, nell’ipotesi Scalfari di redistribuzione a favore del fattore lavoro, che l’ipotesi precedente vede invece allineato alla situazione “cinese” . Scartata la prima ipotesi per ovvi motivi, anche la seconda ipotesi non convince Viale in quanto tra possibilità di redistribuzione e ritmi della globalizzazione resterebbe un divario. Anche la strategia dell’inseguimento per cui i paesi avanzati producono tecnologie avanzate e i paesi emergenti inseguono, strategia peraltro operante in questi decenni in molti casi, non sarebbe più perseguibile in quanto anche i paesi emergenti si stanno attrezzando per essere competitivi anche nelle alte tecnologie.
Viale avanza, dunque, la “ricetta” dell’economia locale, della strategia del “chilometro zero”. Si potrebbe opinare rispetto a questa strategia che economie locali non può voler dire economie chiuse, che sarebbero impossibili, e che dunque si potrebbe trattare di un rimedio parziale, forse anche importante, ma non di una diversa qualità dello sviluppo del quale siano almeno intuibili i termini di un equilibrio. Si potrebbero, inoltre, immaginare recuperi di soluzioni cooperative e di autogestione, con osservazioni, tuttavia, analoghe.
Scartata, come si è già accennato, la prima ipotesi per il semplice motivo che non si tratterebbe di una terapia ma di una forma di resa alla malattia, sembrerebbe importante dare ad una ipotesi d’intervento, qualunque essa sia e appaia socialmente accettabile, la maggiore consistenza analitica e, quindi, le maggiori possibilità di successo.
Prima di arrivare a tentare questa operazione è necessario, tuttavia, richiamare una situazione che sarebbe necessario evitare e cioè quella di assumere un’ottica cosi ottusa da non essere in grado di vedere nemmeno quello che ci sta davanti, forse perché è proprio la dimensione che ne nasconde la natura. Arrivare in ritardo sui problemi significa dovere affrontare questioni che si sono incancrenite o diventate estremamente più complesse. Fuor di metafora occorre spiegarsi come mai abbiamo impiegato un paio di decenni per renderci conto di un fenomeno, come quello che chiamiamo globalizzazione e che era nella logica inevitabile del dopo guerra fredda. Come abbiamo fatto per tanti anni a non renderci conto dell’assurdo, a ritenere cioè che i paesi sviluppati potessero arricchirsi andando in giro per il mondo a vendere televisori pensando che poi alla sera nelle favelas o simili tutti sarebbero andati a letto felici e contenti. L’assurdità di queste situazioni corrispondono, tuttavia, alla realtà. E’ vero che non ci si è accorti nemmeno dell’arrivo della recente crisi internazionale anche quando persone come Sylos Labini ne avevano rilevato i presupposti, ma forse in questo caso alla miopia occorre aggiungere un interesse a nascondere le questioni.
Attualmente ci sono almeno due fenomeni che pur saltuariamente citati, vengono poi trascurati nelle loro logiche conseguenti. Il primo consiste nel fatto che l’aumento della produttività del lavoro non si ottiene solo come vorrebbe Marchionne a Pomigliano e dintorni, caricando i pesi sui tempi e sull’organizzazione del lavoro, oltre che sulla distribuzione del reddito. Queste sono le soluzioni correnti ma che, comprensibili da parte di un privato che deve portare a casa un profitto, non possono avere, come non l’hanno, l’ottica sufficiente per eliminare le conseguenze di una crisi della domanda. Non è questo il meccanismo che portò Keynes a ritenere che “il ritmo con cui possiamo raggiungere la nostra destinazione di beatitudine economica dipenderà da quattro fattori: la nostra capacità di controllo demografico, la nostra determinazione nell’evitare guerre e conflitti civili, la nostra volontà di affidare alla scienza la direzione delle questioni di sua stretta pertinenza, e il tasso di accumulazione in quanto determinato dal margine fra produzione e consumo. Una volta conseguiti i primi tre punti il quarto verrà da sé.” In sintesi è possibile attualmente programmare l’innovazione definendo cosa e come produrre e, in parallelo, ridurre il tempo del lavoro esecutivo come, appunto, immaginava Keynes, e l’alienazione a favore di una “una società più ricca perché diversamente ricca”, come proponeva Lombardi.
Il secondo fenomeno appartiene ad uno dei quattro fattori ricordati da Keynes e cioè al fatto che le dinamiche demografiche che avevano indotto sin dall’epoca di Maltus preoccupazioni evidenti e riflessioni conseguenti in materia di utilizzo delle risorse e di ciclo economico, attualmente quelle dinamiche non hanno più un andamento esponenziale ma piuttosto asintotico verso valori limiti in varia misura prevedibili.
Si tratta di due fenomeni – dinamiche demografiche e dinamiche dell’innovazione tecnologica – che modificano strutturalmente le realtà storiche e che entrano di fatto nel disegnare il nostro futuro, ma che se non le consideriamo per tempo, avranno come unico effetto quello di farci trovare del tutto impreparati rispetto agli eventi che a loro volta, avranno dei connotati diversi rispetto a quelli attualmente possibili. E’ in questa direzione che il dilemma delineato da Andriani (il manifesto, 2 luglio 2010) tra ripresa dei consumi privati sostenuti da non si sa quale ondata di aumenti salariali o una domanda pubblica finanziata in deficit potrebbe trovare in questa seconda direzione una risposta analoga a quella adottata con successo con la prima rivoluzione keynesiana aggiornata negli strumenti e nei contenuti, oltre che nel welfare, dalle considerazioni consentite dalle novità rappresentate dai due fenomeni sopra accennati. Tuttavia poiché sembra evidente che in ogni caso sono necessari tempi non brevi per modificare le condizioni della crisi attuale, occorre prevedere dei passaggi per condurre entro margini accettabili le maggiori urgenze critiche e i maggiori punti di crisi, incominciando magari dalle politiche di redistribuzione. Inoltre le differenti condizioni di partenza delle economie dei diversi paesi rendono del tutto poco ragionevole una terapia unica, piuttosto una articolazione di terapie tra loro certamente verificate e possibilmente connesse e tra le quali potranno trovare posto le varie ipotesi ricordate da Viale anche se è evidente che una operazione di questa natura non può essere opera dei mercati ma, come dice Andriani, “andrebbe programmata e tradotta in politiche industriali a livello di ciascun paese e dell’Unione.”.