L’annuncio, la necessaria correzione, il pattinaggio amministrativo. Ma il messaggio del tetto del 30% agli stranieri in classe è chiaro: quelle ragazze e quei ragazzi sono un problema, un danno da ridurre. Così si ignorano i numeri reali, si calpestano le esperienze concrete e autonome delle scuole, e si impone un modello di società chiusa
Segregazione o integrazione? Quale di queste due finalità prevale nella circolare ministeriale che introduce un tetto del 30% alla presenza degli studenti stranieri nelle classi? Il testo, firmato da Mario Dutto, un direttore generale esperto della complessità del tema per aver operato a lungo in Lombardia misurandosi anche con esperimenti contrastati come quello della “scuola araba”, è indubbiamente abile. Un buon esercizio di pattinaggio amministrativo, tra norme di ispirazione inclusiva (come il DPR 394/1999) e intenzionalità politiche di tutt’altro segno. Ma l’ambiguità resta, e con essa i varchi a un utilizzo perverso della nuova regola.
Ambiguo, del resto, è il comportamento del ministro. Non sfugge la doppiezza politica e la tortuosità comunicativa di ciò che è accaduto nel giro di pochissime ore, tra l’8 e il 10 gennaio. Prima l’annuncio all’opinione pubblica dell’introduzione del tetto, con il testo della circolare ancora stranamente assente dal sito del ministero. Poi, in una trasmissione televisiva di due giorni dopo, la precisazione che il provvedimento non riguarda, perché certamente già in possesso di competenze linguistiche adeguate, i bambini e i ragazzi stranieri nati in Italia. Con l’intenzione evidente di portare a casa due risultati che difficilmente stanno insieme. Da un lato, il consenso di una Lega che in verità vorrebbe ben di più ma che al momento è rassicurata dalla recente proposta di legge Bartolini del PdL sulla cittadinanza, peggiorativa della legge Martelli del 1991 proprio per il ruolo di controllo dei requisiti di accesso che attribuisce all’istruzione. Dall’altro, un’apertura – in verità debole perché una circolare non ha certo la forza di una legge – alle posizioni di chi, anche nella maggioranza, propone il riconoscimento dello status di cittadini almeno alle seconde generazioni di chi è nato qui o ci è arrivato prima o all’inizio dell’età scolare. E infatti Sarubbi, l’onorevole PD che ha firmato con il finiano Granata una proposta di legge che va in questa direzione, oggi dalle pagine della Stampa applaude alla Gelmini che esclude dal tetto chi è nato in Italia. Un quadro in cui la scuola – le responsabilità, la scommessa e le fatiche dell’integrazione, le risorse e gli strumenti per realizzarla – rischia di restare sullo sfondo. Affidata, appunto, ai difficili equilibri del testo della circolare.
E’ comunque indubbio che il messaggio che si dà con l’introduzione del tetto conferma e incoraggia il già diffuso pregiudizio secondo cui la presenza di alunni stranieri costituirebbe un immancabile svantaggio per gli studenti italiani e un altrettanto immancabile ostacolo al buon funzionamento della scuola. Il ministro, del resto, lo dice esplicitamente (“lo sanno le mamme che vedono le classi dei loro figli procedere a due velocità, con alcuni studenti che restano indietro ed altri che vanno meglio“), offrendo il conforto dell’ufficialità a quegli stessi comportamenti di fuga delle famiglie italiane dagli istituti con “troppi” ragazzi di altra cittadinanza che si dichiara invece di voler evitare. E che altro si può fare di fronte a tale flagello, se non tentare di contenerlo o di ridurlo nei limiti del sostenibile, come si trattasse dell’inquinamento dell’aria o del surriscaldamento del pianeta? Nel testo del provvedimento e in dichiarazioni successive si precisa, è vero, che la malattia non si presenta sempre in forma acuta e che bisognerà considerare delle variabili, come la conoscenza più o meno “adeguata” della lingua italiana o il fatto che una parte consistente di questi bambini e ragazzi (sono il 37% del totale, oltre il 60% nella scuola primaria) sono già oggi nati in Italia. Ma, appunto, si tratta di variabili che dovranno essere accertate e che comunque possono solo dar luogo a deroghe: eccezioni alla regola che non sono nella potestà delle scuole ma che dovranno essere autorizzate dall’amministrazione scolastica regionale. Si prevede, anzi, la possibilità di deroghe anche in basso – quindi al di sotto del 30% – come auspicato dall’attuale neonominato direttore scolastico regionale della Lombardia che, più realista del re, sostiene non si debba oltrepassare il limite del 20%. Sebbene il ministro si sbracci a dichiarare che il problema, per carità, non è certo “il razzismo” ma al contrario l’”integrazione” e che il suo provvedimento interviene su problematiche di natura esclusivamente “didattica”, è un fatto che alle scuole – e al paese – non si manda a dire di tenere per quanto possibile conto, nella formazione delle classi, di tutte le variabili effettivamente importanti per impostare una didattica efficace. Non si dice che nella maggioranza dei casi anche i bambini che arrivano a scuola con pochissimo italiano lo imparano velocemente se sostenuti da una didattica esperta. Non si sottolinea il vantaggio per tutti del plurilinguismo, del confronto tra culture e identità diverse, e delle altre caratteristiche che le nostre scuole migliori hanno imparato a valorizzare come risorsa di un’educazione per diventare cittadini di un mondo un po’ più largo ed aperto della Brianza felix. Non si concentra l’attenzione su quali percorsi e strumenti didattici si devono attivare per misurarsi con le situazioni che, per quanto minoritarie, sono davvero problematiche, cioè i ragazzi “ricongiunti” che talora approdano nelle nostre scuole in corso d’anno scolastico senza una parola di italiano. Le nuove Linee guida, invece, incrinano la saggia regola finora vigente per cui i ragazzi dovevano essere “di norma “ inseriti in classi corrispondenti alla loro età, aprendo così ulteriori varchi a mortificazioni inutili e pericolose. Quasi un invito a generalizzare una prassi già fin troppo diffusa di eccezione a quella regola. Gli alunni stranieri in ritardo scolastico erano due anni fa attorno al 30% nella scuola primaria, oltre il 50% nella scuola media, oltre il 70% nella scuola secondaria superiore. Percentuali enormi, che parlano di pregiudizi e di timori degli insegnanti o di difficoltà e povertà delle scuole, ben più che di effettive difficoltà di apprendimento.
I limiti del provvedimento
Tra i limiti più gravi del provvedimento, in termini di politica scolastica, c’è anche la sua fisionomia rigorosamente centralistica. La regola che viene imposta è indipendente dai contesti territoriali, dalle caratteristiche ed esperienze delle scuole e della loro interazione con il territorio di appartenenza, dai diversi livelli e tipi di formazione scolastica. Mentre è evidente che solo nei contesti specifici le scuole possono valutare ciò che costituisce problema e come affrontarlo. Non solo, anche la non familiarità con l’italiano ha con tutta evidenza un significato diverso se si tratta della prima classe della primaria dove italiani e stranieri hanno tutto o quasi da imparare, o della prima classe di scuola secondaria superiore dove è necessaria una competenza linguistica più evoluta per misurarsi con un apprendimento che, nel nostro sistema scolastico, è ancora fortemente incentrato sui libri di testo e sui linguaggi formalizzati. Perfino la condizione di nativi, che solitamente si accompagna a una conoscenza della lingua di livello se non identico almeno comparabile con quello dei coetanei italiani, può avere effetti diversi per i figli delle donne arabe o asiatiche che non lavorano e restano relegate in casa: niente asilo nido per i loro figli, in questi casi, spesso neanche la scuola materna, dunque bassissimi livelli di esposizione all’ambiente linguistico esterno alla famiglia che è decisivo per l’acquisizione dell’italiano, e maggiori difficoltà nell’impatto con la scuola. Dovrebbero dunque essere le scuole a decidere – i criteri di formazione delle classi sono del resto da sempre una loro prerogativa, anche prima dell’autonomia scolastica – e non in base a un criterio quantitativo astratto quantunque derogabile, ma in base alla conoscenza delle situazioni e dei problemi specifici, alla loro stessa esperienza e capacità di intervento. E in coerenza con il principio tradizionale della “pluralità omogenea”, un principio di tipo inclusivo che impedisce che gli istituti scolastici e le classi si caratterizzino per intenzionali o artificiose omogeneità di tipo sociale, economico, culturale, di successo scolastico (e quindi, per estensione, di nazionalità e cittadinanza).
Ma tenere conto delle valutazioni delle scuole e ascoltarle non appartiene allo stile di governo del ministro Gelmini. Se la presenza dei ragazzi di provenienza straniera nelle scuole – tanti o pochi che siano – non determina automaticamente difficoltà di apprendimento degli studenti italiani e se anzi nelle scuole più esperte gli insegnanti verificano che le diversità culturali e linguistiche possono risolversi in arricchimenti educativi, preziose competenze relazionali e comunicative, maggiori capacità di problem solving, stimoli maggiori all’apprendimento delle lingue straniere, è però certo che tutto ciò obbliga a una didattica meno standardizzata, a percorsi personalizzati, a un utilizzo più variato dei diversi linguaggi dell’apprendimento. Occorrono tempi diversi, nuove flessibilità, specifiche competenze, ma dove trovarle e come formarle in una scuola sempre più povera di soldi, organici, strumentazioni tecniche? Anche i laboratori per il potenziamento dell’italiano, preliminari o contestuali alla frequenza scolastica, di mattina o pomeridiani – i quali, per rassicurare le truppe di Bossi, la Gelmini si ostina a chiamare “classi di durata limitata “ – richiedono mezzi. Che oggi vengono negati e ridotti. E’ nota l’avversione del ministro nei riguardi delle compresenze, un tempo strumento diffuso che permetteva la formazione di gruppi ridotti di alunni e l’attuazione di interventi anche individualizzati per alcune ore settimanali. Ed è accertata la tenacia con cui si stanno riducendo progressivamente gli insegnanti facilitatori per l’insegnamento dell’italiano lingua 2. In provincia di Milano, al forte aumento di alunni stranieri negli ultimi dieci anni, corrisponde una riduzione secca delle risorse professionali dedicate all’integrazione: dai circa 700 di dieci anni fa ai 90 di oggi. L’integrazione è una strategia decisiva, strategica per un paese caratterizzato da un’immigrazione insieme crescente e strutturale, ma ha i suoi costi. Se si vogliono negare, è ovvio procedere con provvedimenti di natura centralistica.
Hanno dunque ragione i dirigenti scolastici e gli insegnanti che non vedono niente di buono in questo nuovo provvedimento. Quanto poi alla pietra dello scandalo, cioè la presenza di realtà scolastiche fortemente polarizzate, istituti, plessi o classi frequentati quasi esclusivamente da migranti, a fronte di altri frequentati quasi esclusivamente da italiani, è indubbio che qui l’integrazione è messa a forte rischio e che sono opportuni, se possibili, degli interventi correttivi. In effetti, è proprio nella separazione e quindi nella negazione della possibilità di studiare, crescere, diventare cittadini insieme, l’argomento più forte contro le famose “classi-ponte” dell’onorevole Cota. Ma anche qui, bisognerebbe saper guardare ai fatti senza i pregiudizi e gli allarmismi fuori misura prodotti dai media e dalla cattiva politica. I numeri, intanto. A Milano e a Roma, due piazze entrambe fortemente connotate da indici alti di popolazione immigrata, i casi di scuole ad altissima presenza di allievi stranieri al momento si contano sulle dita più di una mano che di due, e sono molto pochi in tutto il Centro-Nord. Non solo, ci sono due diverse tipologie di situazione che richiedono interventi diversi, e di natura assai più complessa dell’imposizione di una quota.
Nel caso di scuole polarizzate in un senso e nell’altro che appartengono allo stesso territorio, c’è infatti sempre qualcosa che non va nei comportamenti di alcuni istituti scolastici – scuole che scoraggiano la presenza straniera, scuole che viceversa la incoraggiano, talora anche per banali ragioni di conservazione o incremento degli organici – a cui si intrecciano le dinamiche delle famiglie, che per motivi diversi cercano o, più spesso, rifuggono dalle scuole “troppo “ connotate da presenze straniere. Quando ciò si verifica all’interno di un contesto territoriale dotato di più scuole dello stesso tipo (quindi scuole elementari e medie: tutt’altri problemi, evidentemente, con la specificità/rarità degli indirizzi della scuola superiore, peraltro quasi sempre molto connotati dalle provenienze sociali ) è non solo possibile, ma necessaria una distribuzione più equilibrata sia dei ragazzi italiani che di quelli stranieri. A questo proposito la circolare indica alle scuole e ai loro dirigenti di lavorare per patti territoriali e accordi nella formazione delle classi con utenza straniera. Un suggerimento condivisibile, ma tutt’altro che semplice da realizzare senza una forte regia dell’amministrazione scolastica e degli Enti Locali. Si sarebbe dovuto farlo già da tempo, mettendo in campo un governo razionale e lungimirante dei processi. Il sistema educativo non può essere la somma di tante autonomie scolastiche tra loro separate e concorrenti. E’ comunque corretta la precisazione della circolare secondo cui le indicazioni “non vanno intese quali vincoli imposti ai genitori che iscrivono i loro figli, bensì quali criteri organizzativi per le scuole “: pare di capire, infatti, che a nessun genitore, italiano o straniero, può essere imposto di iscrivere “altrove” il proprio figlio. Bisognerebbe, quindi, nell’ipotesi di redistribuzione dei ragazzi per evitare scuole “polarizzate”, persuadere della bontà di scuole non polarizzate i genitori stessi.
Da Prato a Torino
Tutta diversa la situazione dei contesti territoriali – arcinota quella di Prato – in cui è la popolazione in età scolare ad essere “polarizzata”. La regola del 30%, ma anche del 40 o del 50, qui risulta del tutto inutile, ed impropria. Le scuole pubbliche, che per costituzione e norme non possono rifiutare nessuno, non sono in grado, con tutta evidenza, di cambiare i connotati degli insediamenti sociali, degli assetti produttivi, del mercato del lavoro, delle politiche abitative. E neppure l’alleanza tra scuole ed Enti Locali può determinare, per evitare le concentrazioni, irragionevoli (e costose) deportazioni dei diversi tipi di studenti da una zona all’altra. Né, tanto meno, deprivare interi territori delle loro scuole. Se ci sono “ghetti” sociali o etnici, la scuola non deve essere messa sotto accusa perché li riflette, ma aiutata a misurarsi nel modo più intelligente con le situazioni più difficili. Si può fare. Nella scuola di San Salvario di Torino lo si è fatto con successo, grazie agli insegnanti ma anche al Comune, ai teatri, alle biblioteche, ai musei, alle università della città. E oggi ci sono famiglie italiane di altre zone che si mettono in lista per iscrivere lì i loro figli. Perché l’Italia è, per fortuna, anche altro – meno tetra, meno impaurita e rancorosa, più moderna e intelligente – da quello che immaginano Gelmini e tanta politica di destra e anche di sinistra.
Ci si dovrà, del resto, prima o poi rendere conto che anche la società italiana è, e sarà sempre di più composta, stratificata, integrata di provenienze diverse. E’ una fortuna che da noi i figli degli stranieri – quasi tutti – vadano a scuola. E’ pericoloso che si vogliano mortificare, escludere, marginalizzare. Tanto più in un paese in cui è soprattutto nell’esperienza scolastica delle seconde generazioni che si gioca la partita della cittadinanza sostanziale, e dunque dell’integrazione e della convivenza. Ma ci sono anche altre sfide, non meno importanti, a cui occorrerebbe guardare. Perché dire ai ragazzi italiani che quei loro stessi coetanei con cui giocano, fanno sport, scaricano musica, chattano e amoreggiano possono stare nella loro stessa classe solo se non superano l’a rea regola di 1 a 3, di sicuro non gli fa bene. Sono già fin troppi quelli che negli stadi insultano il calciatore nero, ancorché di cittadinanza italiana.