Acqua, spazzatura, trasporto locale. Il “decreto Ronchi” privatizza senza liberalizzare. Occhio alle deroghe, che saranno la regola
La riforma dei servizi pubblici locali approvata dal Parlamento costituisce una ingiustificata accelerazione verso la sostanziale privatizzazione delle aziende locali, con l’aggravante della loro svendita. E’ fondamentale che la discussione esca dai ristretti circoli accademici ed industriali per restituire la parola ai cittadini.
Lo scorso 19 novembre è stata approvata la legge di conversione del decreto n. 135/2009 (c.d. “decreto Ronchi”) che, all’articolo 15, introduce una nuova disciplina di gestione dei servizi pubblici locali (SPL).
In questi anni si sono succeduti numerosi tentativi di riforma del settore, ma il testo approvato il 19 novembre contiene delle novità, non tutte positive, giustificate dall’assioma secondo cui il provvedimento sarebbe motivato dalle necessità di investimento sul comparto dei SPL, necessità che possono essere garantite solo dal settore privato. Vi è inoltre un secondo punto di opacità nella comunicazione dei contenuti della misura che si sostanzia nella negazione del termine “privatizzazione”, preferendo il più rassicurante riferimento alla “liberalizzazione” per descrivere gli effetti della riforma. Si tratta, in entrambi i casi, di due proposizioni sostanzialmente non veritiere e artatamente fuorvianti. Proviamo a vedere perché, invece, l’esito di tutto il processo non potrà essere che quello della “privatizzazione con svendita” delle aziende pubbliche locali.
La nuova disciplina sostiene due cose: la prima è che l’affidamento dei servizi pubblici potrà avvenire solo attraverso una gara indetta o per la gestione del servizio, oppure su almeno il 40% del capitale di una società mista in cui al socio privato siano attribuiti di specifici compiti operativi. In quest’ultimo caso la società manterrebbe l’affidamento diretto. La seconda disposizione è che tutte le gestioni “in house” cesseranno il 31 dicembre 2011 o, in caso di società quotata, con due diverse scadenze (al 30 giugno 2013 e al 31 dicembre 2015).
A tale meccanismo sono state previste due deroghe, una per le società non quotate in borsa ed una per le quotate. Saranno proprio tali deroghe a rappresentare lo stato di fatto che si verrà a creare a regime come conseguenza “naturale” del sistema di incentivi costituiti dalla deroga medesima; in questo quadro, l’opzione della gara per la gestione del servizio (che dovrebbe essere l’ossatura portante della riforma) rimarrà un’ipotesi residuale riservata agli enti locali che non possiedono aziende pubbliche, come già avviene ora. La circostanza che la deroga diventerà la regola, non deve stupire nel nostro Paese. Stupisce piuttosto vedere molti commentatori concentrati nel discettare (Carlo Scarpa su lavoce.info o, da ultimo, Franco Debenedetti su La Repubblica del 22 novembre 2009) di un evento che, con rare eccezioni, non si verificherà quasi mai, ma che è assai utile per fornire alibi e giustificazione all’intero impianto.
Come funziona il sistema di incentivi a favore della deroga? Per le società non quotate in borsa, come ricordato, la gara sul servizio può essere evitata nei casi in cui l’amministrazione pubblica ceda il 40% della società che opera “in house”. Per quanto riguarda le quotate, invece, si stabilisce che la società può mantenere la gestione del servizio fino alla scadenza dei contratti se e solo se entro il 30 giugno 2013 sarà ridotta fino al 40% la quota pubblica nell’azionariato (da ridurre ulteriormente al 30% entro il 31 dicembre 2015).
La maggior potenza dell’incentivo ad utilizzare la deroga rispetto all’opzione alternativa della gara sta tutta in queste disposizioni. Per un qualunque sindaco, infatti, la privatizzazione parziale dell’azienda (sia essa quotata o meno) è di gran lunga preferibile perché consente:
-
di ottenere liquidità in cambio di azioni, da utilizzare nel corso del mandato elettorale;
-
di mantenere l’affidamento diretto alla propria azienda, anche se parzialmente privatizzata, evitando così di generare tensioni connesse agli aspetti occupazionali;
-
di continuare a nominare rappresentanti nel cda dell’azienda, anche se in numero inferiore a prima;
-
di avviare una negoziazione per la scelta del socio privato che, nel caso di società quotate, può avvenire anche per trattativa privata.
Nessuno di tali incentivi è acquisibile attraverso la gara per il servizio che, al contrario, presenta tutti i rischi speculari ai vantaggi della deroga.
Ulteriori perplessità sorgono se si osservano le modalità attraverso cui è stata prevista la cessione delle azioni per le società quotate che dovrà avvenire tramite gara (ovviamente fra pochi) o collocando i titoli privatamente presso investitori qualificati e operatori industriali. Non c’è alcun riferimento al ricorso all’offerta pubblica di vendita come sarebbe naturale per aziende quotate. Tale scelta non è logica a meno che non siano già scritti i nomi dei futuri acquirenti. Non rappresenta di certo una maggiore garanzia la previsione di attivare procedure concorsuali per la scelta del socio privato nel caso di società non quotate.
Saranno privatizzazioni, dunque.
Anche l’osservazione secondo cui il settore privato sarebbe in grado di garantire l’impressionante mole di investimenti necessari a migliorare la qualità del servizio (si stimano 60 miliardi di euro solo per il comparto idrico) non regge di fronte alla banale constatazione che gli investimenti in infrastrutture sono di norma ripagati dalla tariffa a fronte di prestiti delle banche e degli istituti finanziari, erogati indipendentemente dall’assetto proprietario delle aziende. Anzi. E’ noto nella letteratura economica che il costo dell’indebitamento pubblico è sistematicamente inferiore a quello dell’investimento privato. Se dunque per finanziare gli investimenti necessari sulle reti si introduce da subito un fattore di produzione più costoso di un altro, l’effetto sulla tariffa non potrà che essere negativo per gli utenti.
L’ultimo aspetto riguarda la svendita delle aziende e la natura degli acquirenti. Il meccanismo avviato dalla riforma si regge sulla base del presupposto che esista in Italia uno stock di capitale privato libero da impegni e tale da poter soddisfare le esigenze della totalità dei servizi locali che verranno messi a gara contemporaneamente a partire dal 2011: la messa sul mercato delle aziende determinerà un eccesso di offerta sulla domanda e quindi, per una basilare legge economica, prezzi di cessione delle società pubbliche in caduta. Ecco dunque “l’effetto svendita”, insito nel meccanismo, che non ha bisogno neanche di una decisione politica affinché si realizzi. Per la disponibilità del capitale invece, si potrebbe fare affidamento sul rientro dei capitali provocato dallo “scudo fiscale”. In tal caso si realizzerebbe il paradosso di consegnare (con svendita) ricchi monopoli per la gestione dei servizi pubblici a soggetti privati che per anni hanno tenuto i capitali all’estero eludendo le imposte e che ora potrebbero rivelarsi titolati a riscuotere le tariffe. Questa situazione giustifica oramai ampiamente il ricorso all’istituto referendario, in modo che siano i cittadini a chiarire una volta per tutte quale assetto organizzativo sia più indicato a garantire quantità, qualità ed efficienza nella fornitura di servizi.
http://serviziopubblico.wordpress.com