Da oltre quindici anni il dibattito sulle pensioni viaggia sul binario unico della sostenibilità finanziaria. Ora è urgente concentrarsi sulla sostenibilità sociale
Nonostante i numerosi interventi succedutisi dal 1992 in poi, in Italia le riforme previdenziali sono tuttora al centro del dibattito di politica economica. Da tale dibattito emergono due principali visioni, del tutto contrastanti nell’ottica retrostante e negli strumenti di intervento suggeriti.
Da una parte, c’è chi – attento in primo luogo all’andamento degli aggregati di finanza pubblica e preoccupato dalla possibilità che il finanziamento della spesa pensionistica pubblica si riveli insostenibile a causa dell’intenso processo di invecchiamento che caratterizza l’Italia – propone nuovi interventi di contenimento della spesa (da realizzarsi soprattutto attraverso incrementi cogenti dell’età pensionabile ed estensione del ruolo degli schemi privati). Dall’altra c’è chi – interessato in primo luogo al tenore di vita della popolazione anziana e convinto che le riforme approvate negli scorsi anni siano più che sufficienti a garantire la sostenibilità della spesa – ritiene che la principale e più impellente motivazione per modificare le regole previdenziali consista nella limitata “adeguatezza” delle prestazioni che verranno pagate dallo schema contributivo e propone pertanto misure che incrementino tali prestazioni.
Il primo tipo di visione ispira il Libro Verde sul futuro del modello sociale, presentato nell’estate del 2008 dal Ministero del Lavoro, nel quale il sistema previdenziale pubblico viene visto prettamente come un elemento di costo, come un vincolo a quella ricomposizione della spesa sociale che sarebbe invece necessaria per soddisfare i principali “bisogni primari” dei cittadini (relativi in primis alla salute). Il secondo tipo di visione è invece alla base del Protocollo sul Welfare del 2007, nel quale si enfatizzava il problema dell’adeguatezza delle prestazioni future e, pur restando all’interno dello schema contributivo, si prefiguravano modifiche del metodo di calcolo dei coefficienti di trasformazione e l’introduzione di meccanismi che garantissero il raggiungimento di tassi di sostituzione (rapporto fra pensione e salario) non inferiori al 60 per cento.
Per prendere posizione in questo dibattito appare necessario riflettere a fondo sulle caratteristiche del futuro sistema previdenziale italiano (ovvero sullo schema contributivo, che sarà in vigore per la generalità del flusso dei nuovi pensionati solo intorno al 2030) e considerarne le implicazioni in termini di sostenibilità della spesa e adeguatezza delle prestazioni.
Il metodo contributivo si basa su criteri di rigida equità attuariale fra i contributi versati durante l’intera carriera e le prestazioni che si riceveranno da anziani. La pensione è infatti calcolata moltiplicando il montante derivante dall’accumulazione dei contributi (sui quali è garantito un rendimento legato alla crescita del Pil) per i cosiddetti coefficienti di trasformazione, i quali, in base all’aspettativa di vita attesa al momento del pensionamento, trasformano il montante in un flusso di rendite pensionistiche.
Oltre a essere in media neutrale rispetto alle scelte di pensionamento (la prestazione cresce in misura attuarialmente equa quando si pospone il ritiro), l’applicazione dello schema contributivo scinde il legame fra spesa previdenziale e dinamica demografica. La revisione periodica dei coefficienti di trasformazione, infatti, fa sì che un incremento della speranza di vita sia compensato da una riduzione dell’entità unitaria della prestazione, senza causare effetti, quindi, sulla spesa aggregata. Come dimostrato dalla teoria economica, il pagamento sui contributi versati di un tasso di rendimento allineato alla crescita del Pil garantisce inoltre l’equilibrio finanziario di un sistema pubblico a ripartizione.
Dal punto di vista aggregato il sistema contributivo agisce quindi in modo da stabilizzare la quota di Pil da destinare al pagamento delle pensioni. In altri termini, le dimensioni della torta a disposizione dei pensionati sono fisse: un incremento dei beneficiari (causato ad esempio da una caduta del tasso di mortalità) comporterà unicamente una riduzione delle dimensioni delle fette.
Dal punto di vista individuale, invece, a parità di andamento aggregato di economia e demografia, nel contributivo la prestazione dipende da quanto si contribuisce, quindi dal successo della carriera lavorativa. Basandosi su criteri di equità attuariale fra versamenti e prestazioni, il sistema contributivo è infatti scevro da significativi elementi redistributivi e costituisce essenzialmente uno specchio di quanto accade sul mercato del lavoro.
Una valutazione, per quanto sintetica, delle caratteristiche di tale sistema induce quindi a ritenere che, qualora i meccanismi previsti dalla riforma Dini (in primis l’aggiornamento periodico dei coefficienti di trasformazione) non vengano alterati in misura sostanziale, la sostenibilità di lungo periodo della spesa previdenziale italiana sia garantita “per definizione”.
Tale considerazione è confermata dalla lettura delle proiezioni di spesa a lungo termine effettuate dalla Commissione Europea nel 2006, le quali evidenziano come l’entrata in vigore dello schema contributivo contribuirà a stabilizzare la quota di spesa pubblica destinata a pensioni: fra il 2004 e il 2050 il rapporto fra spesa per pensioni e Pil dovrebbe infatti crescere di soli 0,4 punti percentuali (fino ad un livello del 14,7%).
Ma allora perché emerge tanta preoccupazione nel dibattito corrente? La principale preoccupazione fra gli esperti può essere fatta risalire al timore che la lunga fase di transizione verso il nuovo regime sia caratterizzata da un (transitorio) incremento di spesa (la cosiddetta “gobba”; le proiezioni comunitarie prevedono per l’Italia un picco di spesa di poco inferiore al 16% verso il 2040). Ma, anche a tale proposito, vanno effettuate alcune precisazioni.
In primo luogo va evidenziato che i confronti internazionali della spesa previdenziale, dai quali il corrente dato italiano emerge come un’anomalia (nel 2006 la spesa pubblica per pensioni risultava pari al 14,7% del PIL in Italia, al 12,1% nella media di UE15) sono spesso fuorvianti poiché sono inficiati dal fatto che in Italia, a differenza di quanto accade nella gran parte dei paesi europei, a tale spesa (che è al lordo dell’imposizione fiscale, mentre altrove le prestazioni sono invece spesso esentasse) sono accollate, a causa di limiti strutturali del nostro sistema di welfare, anche significative componenti di natura assistenziale. D’altronde, chi propone di tagliare la spesa pubblica italiana sulla base della considerazione di tale anomalia trascura solitamente di evidenziare un’altra (e probabilmente più grave) anomalia: nel complesso, la spesa sociale italiana (per pensioni, sanità, lotta contro la disoccupazione e l’esclusione sociale) è di circa un punto percentuale inferiore a quella media di UE15 (nel 2006, 26,6% versus 27,5%) e di entità ben inferiore a quella di Germania e Francia (rispettivamente 28,7% e 31,1%).
In secondo luogo va evidenziato come le proiezioni di spesa di medio periodo varino in misura sostanziale a seconda delle ipotesi macroeconomiche e demografiche adottare; tendenze spesso presentate come verità incontrovertibili sono in realtà risultato di assunzioni fondate su elementi incerti. Le proiezioni comunitarie si basano ad esempio per l’Italia su un flusso netto annuo di 150.000 immigrati: simulazioni alternative1 mostrano come la considerazione di flussi annui lievemente superiori, maggiormente in linea con l’evidenza dell’ultimo decennio, comporti effetti macroeconomici tali da generare, di fatto, la scomparsa della “gobba” pensionistica.
Ad ogni modo, prescindendo dalle problematiche della lunga fase di transizione, si può ribadire come l’elemento cardine del sistema contributivo consista nello stabilizzare la quota di risorse da destinare agli anziani, per quanto grande sia il loro numero. Il reale problema di lungo periodo sembra quindi manifestarsi dall’altro lato di questa coperta corta, ovvero in ragione di prestazioni troppo minori di quanto era garantito dal precedente schema retributivo.
Semplici simulazioni mostrano come, ipotizzando un tasso di crescita del Pil dell’1,5% reale annuo, intorno al 2040 ci si potrà pensionare a 62 anni con 35 di anzianità ricevendo una prestazione pari a circa la metà dell’ultimo salario o pari a circa i 2/3 qualora ci si ritiri a 65 anni con 40 di contribuzione (con le stesse anzianità nel retributivo il tasso di sostituzione è compreso fra il 70% e l’80% ad età di ritiro molto più precoci). Ancor più gravi appaiono le prospettive previdenziali in presenza di tassi di crescita del Pil bassi come quelli dell’ultimo decennio e, in particolare, per gli individui caratterizzati da carriere lavorative discontinue e/o scarsamente remunerate o che dovessero lavorare per un lungo periodo come parasubordinati (data la minore aliquota versata).
Il trasferimento del Tfr nei fondi pensione privati non appare d’altronde sufficiente a ristabilire il precedente tenore di vita dei lavoratori per un duplice ordine di considerazioni. Da una parte, come dimostra l’esperienza di questi ultimi tempi e la stessa comparazione del tasso di rivalutazione sul Tfr e dei rendimenti dei fondi pensione italiani dalla loro istituzione (con il primo che, per quanto limitato, si rivela generalmente superiore in un orizzonte pluriennale, anche prima della recente crisi), le oscillazioni sui mercati finanziari non garantiscono affatto di recuperare senza rischi livelli dei tassi di sostituzione simili a quelli del retributivo, integrando pensione pubblica e privata. Dall’altra, versando il Tfr nella previdenza integrativa i lavoratori italiani rinuncerebbero ad uno strumento che svolge un ruolo fondamentale per compensare rischi di liquidità che mercati dei capitali imperfetti e ammortizzatori sociali poco generosi non sono in grado di coprire adeguatamente.
Il dibattito corrente sembra invece, almeno in parte, distante dal quadro delineato finora. In particolare si fa ancora un gran parlare di ulteriori incrementi dell’età pensionabile come elemento necessario per razionalizzare il sistema previdenziale senza considerare che tali incrementi – suggeriti, probabilmente, per mere ragioni di contenimento immediato della spesa pubblica – non inciderebbero sugli equilibri di lungo periodo (nel sistema contributivo il saldo fra entrate e uscite è indipendente dall’età di pensionamento: a un’età più avanzata corrispondono, in misura proporzionalmente eguale, maggiori entrate e uscite).
Anziché continuare a preoccuparsi di una sostenibilità finanziaria per definizione garantita dalla piena entrata in vigore dello schema contributivo, sarebbe quindi auspicabile concentrarsi da subito sui principali limiti di tale schema dal lato dell’adeguatezza, provvedendo in primo luogo a correggere l’immotivata divergenza di aliquote fra parasubordinati e dipendenti e ad introdurre correttivi, soprattutto di carattere redistributivo (ad esempio, elementi di progressività nella definizione dei rendimenti pagati sui contributi versati, o l’estensione delle contribuzioni figurative) che, senza comportare ingenti incrementi di spesa, aiutino a fronteggiare il rischio concreto di ritrovarsi da anziani in condizioni di esclusione sociale anche dopo aver lavorato per molti anni.
(Questo articolo si basa su un contributo più esteso pubblicato sul numero 44/2009 di Aspenia)