La criminalizzazione dello straniero arriva al pronto soccorso. La comunità si disintegra nel “noi-loro”, e si nega a chi è nato altrove il diritto di esistere
La negazione del diritto alla salute alle persone straniere prive di permesso di soggiorno è semplicemente un’aberrazione, la cui atrocità viene occultata dal freddo calcolo politico di chi spera di distrarre l’opinione pubblica da preoccupazioni ben più serie, non curandosi minimamente delle conseguenze che questa scelta avrà sulla vita di migliaia persone. Attraverso la manipolazione della realtà il messaggio martellante della Lega è riuscito a trasformare degli uomini, delle donne, dei bambini, delle persone in esseri non umani per il solo fatto di essere nati altrove. Proprio il sistematico, testardo, martellante processo di disumanizzazione dei migranti ha reso possibile trasformare quegli slogan che sino a qualche anno fa erano considerate dai più forme di propaganda senza importanza di una forza politica minoritaria, nelle idee portanti delle politiche migratorie del nostro paese. Tale processo di disumanizzazione è stato sapientemente costruito sulla base di uno schema ideale che ha unito in una connessione logica alcune parole chiave, comunità, identità, “clandestino”, criminalità, sicurezza per cementare quella contrapposizione noi-altri che costituisce l’asse centrale del discorso razzista. Questo schema logico, divenuto cultura egemone nel nostro paese, rischia di offuscare il significato reale dell’abolizione del comma 5 dell’art. 35 del T.U. 286/98, che prevedeva il divieto di segnalazione da parte dei medici dei migranti irregolari che si rivolgevano al servizio sanitario pubblico, così come delle altre norme discriminatorie contenute nel cosiddetto pacchetto sicurezza.
La comunità, svuotata del significato originario della parola latina che rinviava ad un sentimento di “comunanza, partecipazione”, viene identificata, sulla base di un principio di esclusione, con la comunità di sangue, che nell’era della globalizzazione (o della post-globalizzazione) deve essere difesa a tutti i costi dagli estranei. Corollario immediatamente conseguente è la definizione di una identità comunitaria, concepita come fissa e impermeabile, fondata sulla “differenza” intesa come differenziazione dei propri valori, identificati con i propri stili di vita, le proprie tradizioni, la propria lingua, persino la propria cucina (si veda il regolamento approvato dal Consiglio Comunale di Lucca il 24 gennaio scorso), da quelli degli altri. Comunità e identità fondata sulla differenza qualificano il noi.
Gli altri chi sono? Naturalmente sono i migranti che quasi mai vengono definiti come tali; la parola che viene usata per eccellenza per parlare di loro è “clandestino”. Nell’immaginario collettivo la parola rinvia immediatamente agli sbarchi nel Sud della penisola che i telegiornali propongono periodicamente veicolando l’idea che la maggior parte dei migranti arrivi dall’Africa e via mare (e così non è). Verrebbe da chiedersi cosa vi sia di più visibile (e dunque di meno “clandestino”) delle persone che arrivano sulle nostre coste chiedendo accoglienza. Ma il punto vero è che, con un’ennesima manipolazione della realtà, si contrappone artificiosamente chi è privo di permesso di soggiorno a chi non lo è dimenticando che la grandissima parte dei cittadini stranieri oggi regolarmente soggiornanti in Italia hanno attraversato un periodo di irregolarità o perché sono giunti sul territorio senza visto o perché sono giunti con un visto per turismo e poi caduti nell’irregolarità, perché non hanno avuto alternative. La collaboratrice domestica che cura le nostre case, la baby sitter alla quale affidiamo i nostri bambini, il muratore che chiamiamo a ristrutturare i nostri appartamenti, il collega operaio, barista, cameriere, cuoco, trasportatore sono quasi tutti stati nel loro recente passato dei “clandestini”. Molti di loro, quelli arrivati più recentemente, lo sono ancora adesso perché non hanno avuto la fortuna di partecipare alle ultime lotterie delle quote flussi o perché, avendo perso il lavoro, hanno perso anche il permesso di soggiorno o, ancora, perché il loro datore di lavoro preferisce mantenerli al nero per poterli sfruttare meglio. Molte e molti cittadini stranieri con cui abbiamo a che fare ogni giorno sono o sono stati “clandestini” e molti torneranno ad esserlo grazie alle politiche migratorie miopi e perverse adottate dai nostri governi. Non è una loro scelta.
Ma il consolidamento della identità comunitaria-nazionale ha trovato il suo vero pilastro nella criminalizzazione dei migranti e nell’uso strumentale delle paure sociali. Sin dal suo nascere la vulgata leghista vi ha fatto ricorso per trasformare in mobilitazione sociale e in consenso elettorale il rancore e la rabbia diffusa nei suoi territori, minacciati dalle trasformazioni dell’economia globale. La Lega è riuscita talmente bene nel suo intento che è stata imitata anche da quegli attori politici che dovrebbero avere ben altri principi e ideali di riferimento sui quali fondare il loro rapporto con chi viene da altrove. La campagna più recente di stigmatizzazione dei migranti come soggetti particolarmente esposti ai fenomeni di devianza non è infatti partita dalla lega, né dalle altre forze del centro destra, ma dalla sinistra nel corso della passata legislatura. I Patti per la sicurezza nelle città e le innumerevoli ordinanze che hanno colpito non solo i migranti, ma anche le fasce più deboli della popolazione autoctona, sono state in molti casi proposte da amministratori “democratici”.
Vale la pena soffermarsi su un dettaglio: la campagna securitaria che ha scelto i cittadini stranieri come principali bersagli, è stata lanciata nel 2007 sull’onda di un allarme per la presunta diffusione nell’opinione pubblica della “percezione di insicurezza” (misteriosamente scomparso negli ultimi mesi) che i sondaggi promossi dai più importanti media nazionali si sono affrettati a confermare. Non dunque sulla base di dati reali che, seppure avessero evidenziato una maggiore numerosità di reati commessi da cittadini stranieri o appartenenti a particolari nazionalità, non avrebbero dovuto intaccare il principio in base al quale la responsabilità penale è personale e chi commette un reato deve essere punito con una pena commisurata all’entità del reato e non alla tipologia della sua nazionalità o al suo status giuridico. Cosa che è stata invece puntualmente sancita dalla legge 125/08, uno dei 5 provvedimenti del pacchetto sicurezza, grazie all’introduzione dell’aggravante di un terzo della pena prevista se l’autore del reato è un immigrato irregolare.
Le norme del dll 733 approvato il 5 febbraio al Senato (che deve tornare alla Camera prima di diventare legge) devono essere lette in questo contesto. L’introduzione del reato di ingresso e di soggiorno irregolare, la tassa sul rilascio e sul rinnovo del soggiorno fino a 200 euro, l’obbligo della certificazione dell’idoneità alloggiativa per l’iscrizione anagrafica e del possesso del permesso di soggiorno per sposare un cittadino italiano, per riconoscere il proprio figlio, per trasferire i risparmi ai propri familiari nel paese di origine; l’obbligo del superamento di un test di lingua italiana per ottenere la carta di soggiorno, la cancellazione anagrafica dei senza fissa dimora: sono tutte norme che hanno in primo luogo l’obiettivo di marcare quella differenza noi-loro che, facendo un lungo passo indietro nel tempo, torna a riproporre l’idea dello straniero come un barbaro da tenere lontano in ogni modo o di cui calpestare per quanto possibile la dignità umana, fino a metterne in discussione il diritto ad esistere. Per questo i medici, grazie alla modifica dell’art.35 del testo unico 286/98, sono invitati (ma non obbligati) a negare le cure agli stranieri privi di permesso di soggiorno e a segnalarli alle forze di pubblica sicurezza. Per questo non solo i medici e gli operatori sanitari, ma anche il personale amministrativo che opera nel nostro sistema sanitario devono ignorare questo invito e garantire il diritto alla salute a tutti.