Il disastro del piano nazionale di attuazione di Kyoto. Le colpe delle industrie e quelle dei governi. La proposta dei metalmeccanici per sbloccare la trattativa europea
La precarietà di risultati – a tutela di alcuni legittimi interessi del sistema industriale italiano – è direttamente proporzionale all’improvvisazione e ai ritardi con cui la politica nel nostro paese e la stessa Confindustria hanno affrontato (e continuano a farlo) molti dei fascicoli inter-istituzionali dell’Unione Europea. Ultimo in ordine di tempo è il piano europeo di riduzione delle emissioni di biossido di carbonio del 20 per cento dal 2013 al 2020, associato all’aumento dell’efficienza energetica e dell’impiego di fonti rinnovabili nella produzione d’energia elettrica, entrambe del 20 per cento. Dei tre fattori necessari per stabilizzare il clima, il sistema Italia è più avanti degli altri paesi europei solo nell’efficienza energetica (contenuto di energia per unità di prodotto, in tonnellate di petrolio equivalenti rispetto al Pil). Non per scelta consapevole o lungimiranza dei Governi attraverso l’intervento pubblico mirato, ma semplicemente perché il sistema delle imprese ha fatto di necessità virtù (visto il costo dell’energia elettrica in Italia), investendo nell’uso razionale dell’energia e nel risparmio. In sostanza molte aziende, per consumare meno energia a parità di output, hanno realizzato un’innovazione incrementale e continua nei processi di produzione e nei prodotti. Al contrario il sistema Italia ha accumulato colpevolmente, rispetto agli altri paesi europei, un deficit nel campo delle fonti rinnovabili di energia e ha finito per emettere in atmosfera più anidride carbonica di quanto ne emetteva nel 1990, non rispettando gli impegni assunti in ambito europeo con l’applicazione del protocollo di Kyoto.
Qualsiasi opinione sul pacchetto di misure che l’UE si appresta ad adottare sui cambiamenti climatici, non può prescindere da questi dati di fatto. Invece molte dichiarazioni di questi giorni da parte del Governo italiano e di Confindustria, pur sollevando problemi reali, mi hanno fatto venire in mente quel film di Ken Loach “Il vento che accarezza l’erba”, quando Damien – uno dei protagonisti – dice “E’ facile sapere contro cosa ti batti, più difficile è sapere per cosa ti batti”. Infatti, l’unica cosa chiara è che ci si sta battendo per una moratoria di un anno, giudicando le misure su clima ed energia, costose, inefficaci, inique e penalizzanti per il sistema Italia. Meno chiare sono le richieste di riesame per non far pagare al settore elettrico il cento per cento dei diritti di emissione dal 2013 e per attribuire gratuitamente le quote di emissione per quei settori energivori esposti alla concorrenza globale. E’ il caso, ad esempio, della siderurgia europea che, in assenza di un accordo internazionale che coinvolga tutti i paesi, potrebbe essere spinta a delocalizzare. Non è facile decifrare se tutti i soggetti in campo, pur dichiarandosi d’accordo sulla strategia di fondo, abbiano la stessa idea (e gli stessi interessi) sul come ridisegnare e, soprattutto, ripartire gli impegni di riduzione delle emissioni di CO2. Il problema vero è che l’Italia sta viaggiando contromano agli obiettivi già fissati dal Protocollo di Kyoto (- 6,5 per cento come media 2008-2012 rispetto al 1990), che non sono più in discussione e nel caso non si realizzassero costeranno al paese – cioè a ciascuno di noi – pesanti sanzioni. E’ sacrosanto lamentarsi dei criteri che furono adottati per ripartire – tra i diversi Stati – la riduzione delle emissioni di CO2. Prendendo a riferimento le quantità di gas serra emesse nel 1990, si è finito per penalizzare quei paesi, come l’Italia, che a quella data emettevano meno degli altri in rapporto al PIL pro-capite. Ma non può essere sottaciuto che le misure di attuazione sul piano nazionale sono state quanto di più iniquo e sbagliato si potesse fare, sia nella re-distribuzione degli impegni di riduzione tra i settori, sia tra le imprese di uno stesso settore. Nella prima fase dell’applicazione di Kyoto (2003-2007), infatti, tutto il peso della riduzione delle emissioni è gravato sull’industria manifatturiera che impiega impianti di combustione (dal cemento alla siderurgia, dalla chimica ai metalli non ferrosi), la quale in Europa è responsabile solo del 20 per cento delle emissioni di CO2. Si è lasciato fuori, oltre ai trasporti e all’edilizia abitativa (21 e 17 per cento del totale delle emissioni), anche il settore dell’energia (centrali elettriche e raffinerie di petrolio) che da solo concorre al 28 per cento delle emissioni di CO2. Anche in questo modo si è giustificata una politica energetica che, mentre rilanciava il carbone come fonte primaria, continuava a considerare residuale l’apporto delle fonti rinnovabili.
Nella seconda fase, iniziata quest’anno e che proseguirà fino al dicembre del 2012, si è fatto giustamente rientrare il settore dell’energia negli impegni di riduzione, ma continuano a rimanerne fuori i trasporti, l’edilizia abitativa e l’agricoltura, che insieme sono responsabili di quasi la metà delle emissioni di gas serra. Il piano nazionale di attuazione di Kyoto (e le colpe non sono imputabili a Bruxelles) anche questa volta non è stato un buon esempio di rigore e di equità, se è vero – come confermano i dati – che l’assegnazione delle quote, ad esempio, per ciascun sito siderurgico ha escluso l’unico criterio razionale di ripartizione: la quantità di emissioni di CO2 per unità di prodotto. Il risultato è che per ogni tonnellata di acciaio prodotta da minerale di ferro (ciclo integrale) la quota di emissioni gratuite di CO2 attribuite al Gruppo Riva a Taranto è di una tonnellata e 113 chilogrammi di CO2, al Gruppo Lucchini a Piombino – invece – a parità di produzione è stato assegnato un diritto di emissione di soli 815 chilogrammi di CO2. Se compariamo le quote di emissione attribuite alle acciaierie elettriche le disparità sono maggiori: per una tonnellata di acciaio prodotta, si passa dai 290 chilogrammi di CO2 attribuite alla ThyssenKrupp di Terni, ai 150 chilogrammi attribuiti al Gruppo Riva a Verona, ai soli 70 chilogrammi assegnati al Gruppo Arvedi a Cremona, l’azienda che più di chiunque altro in Europa ha innovato il modo di produrre acciaio. Di fronte a questi dati Confindustria e Federacciai non ci fanno una bella figura, nel riproporre insieme ai siderurgici europei egemonizzati dalla potente lobby tedesca, di lasciare le cose come stanno anche per il futuro. In Europa per tonnellata di acciaio prodotta si emettono in media (tra ciclo integrale e ciclo elettrico) una tonnellata e mezzo di CO2 contribuendo al sei per cento del totale delle emissioni.
Per queste ragioni la posizione approvata dall’esecutivo della FEM (Federazione Europea dei Metalmeccanici) su proposta dei sindacati italiani è di appoggiare gli obiettivi di riduzione e lo scambio di emissioni, non con la vendita all’asta, ma con la gratuita assegnazione dei certificati di emissione in conformità a parametri di riferimento (benchmark) che tengono conto della quantità di CO2 per unità di prodotto, valorizzando le migliori tecnologie disponibili. Gli impianti non conformi ai limiti di emissione, corrispondenti al livello di assegnazione gratuita, avrebbero il permesso di acquistare le quote di emissione eccedenti, rispettando il principio “chi inquina paga” e alimentando un fondo europeo a sostegno dell’innovazione. Significa, però, uscire dalle distorsioni attuali sull’applicazione del protocollo di Kyoto, avendo il coraggio di cambiare la logica esistente che penalizza le imprese più virtuose e premia quelle più inquinanti. In questo senso ha ragione Sergio Marchionne quando sostiene che negli impegni di riduzione percentuale (meno dieci per cento) per i settori come l’auto, che non rientreranno nel sistema delle emission trading, non si rispetta il principio europeo del “chi inquina paga”. La decisione di mettere sullo stesso piano la produzione di SUV e la produzione di auto di piccola cilindrata, i motori a gasolio e quelli a metano, non ha nulla di razionale. L’unica misura ragionevole per i cambiamenti climatici nella produzione dei mezzi di trasporto è di contenere in valore assoluto la quantità di emissioni di CO2 per chilometro percorso, definendo dei limiti massimi e facendo pagare solo chi li supera. Questo è un punto su cui vale la pena concentrarsi nell’obiettivo di correggere alcune delle misure in discussione a Bruxelles, ma in coerenza con la strategia di fondo della CE. Le soluzioni esistono: aumentare ancora di più l’efficienza energetica dell’economia italiana come fattore di competitività, adottare massicciamente le fonti rinnovabili, piantare milioni di alberi per assorbire l’anidride carbonica, mettere un freno alla cementificazione del territorio a scapito delle aree agricole e del verde. Non ci vuole molta fantasia: occorre scegliere l’innovazione e utilizzare il volano della spesa pubblica, non solo per garantire i mercati finanziari, ma per rimettere in moto l’economia a favore di tutti, dell’ambiente e delle generazioni future.