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La resa della Cop a Belem

Un disastro. La Cop30 non ha fissato la fine dei combustibili fossili mentre il rialzo delle temperature va velocemente verso un raddoppio, ha continuato a monetizzare le foreste senza arrestarne l’erosione, rimandando ogni sforzo ulteriore alla Cop 31, in uno dei Paesi campioni del business fossile: la Turchia.

La COP30 di Belém è nata con aspettative enormi. Prima conferenza a tenersi alle porte dell’Amazzonia a dieci anni dall’Accordo di Parigi, avrebbe dovuto segnare un nuovo inizio per le politiche climatiche. È stata definita la COP della verità e del coraggio ma l’assenza degli USA prima, così come i passi indietro sulla transizione energetica e le iniziative decise come non vincolanti durante e dopo, hanno trasformato il negoziato in un gioco al ribasso pieno di contraddizioni e promesse disattese, in una condizione dove il limite di 1,5 °C è già stato raggiunto e superato. Evidentemente, gli ultra-ricchi del pianeta, sulla scia delle nuove affermazioni di scettiscismo climatico  di Bill Gates, trovano opportuno allinearsi alle posizioni del re Trump, che platealmente afferma: “Drill baby, drill”. Forse ritengono che loro saranno in grado di salvarsi dal collasso sociale che potrà provocare il cambiamento climatico, nei loro residence di ultralusso o forse anche in nuovi rifugi su Marte da raggiungere sui razzi di Elon Musk, lasciando i poveri, colpevoli di esseri poveri, all’inferno sulla Terra. 

Nel seguito, con uno sguardo critico proviamo a mettere in fila le cose sull’accaduto e sul perché le COP continuano a inciampare sull’unica cosa realmente rilevante: la certezza di un phase-out veloce dai combustibili fossili. 

La COP alle porte dell’Amazzonia

“Portare la COP nel cuore dell’Amazzonia è stato un compito arduo, ma necessario”, ha affermato il Presidente brasiliano Lula nel discorso di apertura dei lavori della COP30. Non aveva tutti i torti. Ma i prezzi spropositati per una camera di hotel e la carenza di alloggi disponibili a prezzi accessibili hanno trasformato i negoziati sul clima in un evento d’élite sul quale si è alimentato il business degli alloggi. Così, mentre Lula parlava di investimenti strutturali che “potranno essere conservati dagli abitanti”, la scelta di svolgere la COP30 a Belem è risultata quantomeno contradditoria per i residenti e totalmente non inclusiva rispetto ai delegati provenienti dai Paesi più poveri. 

A Belem erano presenti più di 5.000 rappresentanti indigeni, previsti dalla Coalizione dei popoli indigeni del Brasile (APIB). Di questi solo 360 delegati hanno ottenuto l’accreditamento per l’area riservata, contro la presenza di 1.600 delegati legati all’industria fossile. Benzina sul fuoco per la Flottilla indigena che, dopo aver navigato per 3.000 km lungo il Rio delle Amazzoni, ha sfondato i controlli ONU, pretendendo la protezione dei territori ancestrali e il riconoscimento delle popolazioni indigene come custodi dell’Amazzonia, la fine dei progetti estrattivi e la consultazione indigena per ogni intervento nei loro territori. Una richiesta di trasformazione radicale delle politiche climatiche finora seguite nell’Amazzonia, per una Cop che si è conclusa con risultati così deludenti da risultare, al meglio, inutili.

Il Tropical Forest Forever Facility: svolta o solita, inutile scorciatoia?

Durante il Leader Climate Summit, è stato lanciato il Tropical ForestsForever Facility (TFFF). Questo consiste in un meccanismo finanziario globale che usa rendimenti da investimenti fino a 125 miliardi per pagare i Paesi con foreste tropicali, incentivandoli in tal modo a conservarle a lungo termine. Il fondo è destinato a finanziare Paesi con progetti di preservazione delle proprie foreste, riducendo la deforestazione a un livello concordato. 

La ministra brasiliana dell’Ambiente, Marina Silva, ha definito il TFFF “una svolta epocale per il riconoscimento del valore dell’ecosistema forestale che pone il Brasile al centro della costruzione di soluzioni climatiche durature”. Ma il termine “durature” fa a pugni con la natura profonda del fondo. Concepito oltre 15 anni fa alla Banca Mondiale, secondo la Global Forest Coalition si basa irremediabilmente sulla logica del capitalismo verde, attribuendo, al solito, un valore monetario ai servizi ecosistemici delle foreste. Nella previsione iniziale, i pagamenti sarebbero erogati ai ministeri delle Finanze dei Paesi partecipanti, che avrebbero piena discrezionalità sull’uso dei fondi. Infine solo una percentuale minima (il 20% secondo la versione più recente) dei fondi è destinata alle popolazioni indigene e alle comunità locali.

Infine il testo della COP30 non fa nessun riferimento all’arresto della deforestazione. Una decisione sconsiderata per l’Amazzonia che, dal 2001 al 2024 ha perso 73 milioni di ettari di copertura arborea, di cui il 54%, concentrato in sole tre regioni, con il Pará, sede della COP30, a fare da apripista con ben 19 milioni di ettari di foresta distrutti. Con queste premesse il TFFF sembra essere semplicemente una in più tra le scorciatoie finanziarie, nonché una delle forme più collaudate di greenwashing. Trasformare le foreste in business è una soluzione che nasce dalla stessa logica che ha creato il problema: la perpetuazione infinita del meccanismo che sta distruggendo l’ecosistema.

L’inconsistenza del Mutirão 

All’ultimo minuto, dopo giornate dense di discussioni e promesse sull’accelerazione della transizione energetica, ogni riferimento all’uscita dai combustibili fossili si è volatilizzata nel nulla dal Global Mutirão, l’accordo politico degli Stati sottoscritto al termine della COP30. Ma facciamo un passo indietro. Entro febbraio 2025, gli Stati avrebbero dovuto ridefinire i propri Nationally Determined Contribution (NDC), ovvero gli impegni nazionali di riduzione delle emissioni che vengono aggiornati ogni 5 anni, affinché siano sempre più ambiziosi dal punto di vista climatico. Tuttavia, non solo gli NDC sono stati presentati con mesi di ritardo, ma sono anche risultati lontanissimi dall’obiettivo dichiarato di 1,5 °C. Le azioni delineate dai Paesi hanno previsto una riduzione globale delle emissioni del 12% entro il 2035, ben distante del 60% necessario, portando ad un riscaldamento stimato  al 2035 tra 2.1 e 3.2 ° C, con una media di  2.6 °C secondo Climate Action Tracker. Altro che 1.5 gradi!

A partire da queste premesse tragiche, è servita la pressione di oltre 80 Paesi per sancire l’inizio del mutirão, il lavoro della “comunità per il bene comune” atto ad elaborare una roadmap globale per guidare la  transizione dai fossili giusta, come inizialmente previsto dall’accelerazione degli obiettivi fissati dalla precedente COP28. Ogni Paese, a seconda delle proprie esigenze e sempre con piani di implementazione differenziati e non obbligatori, avrebbe dovuto rendere i propri sistemi energetici progressivamente non fossili, triplicando la capacità di energia rinnovabile. Questo con la creazione di sistemi di monitoraggio atti a valutare il raggiungimento degli obiettivi indicati e, dall’altra, forme di finanziamento verso le economie più vulnerabili. Le trattative giravano attorno ad un tema così difficile e scottante che, per ironia della sorte, c’è voluto un “provvidenziale” incendio scoppiato nella zona negoziale a decretarne la conclusione, di fatto una fine più che segnata sin dall’inizio. Le ceneri prodotte dal fuoco non sono state in grado di nascondere l’inconsistenza nei fatti. Questa inconsistenza ha provocato la reazione di 29 Paesi, che denunciando la scomparsa di ogni riferimento all’uscita dai combustibili fossili e all’arresto della deforestazione si sono esplicitamente opposti a una proposta con azioni pressochè nulle, che solo “i meno ambiziosi sono disposti a consentire”.

I negoziati hanno raggiunto infine un tipping point, punto di non ritorno che ha sancito la morte in culla del percorso di uscita dai combustibili fossili. La proposta definitiva si limita all’introduzione del Global Implementation Accelerator (sotto la guida delle Presidenze COP30 e della futura COP31, che sarà nella Turchia pro-fossili) e del Belém Mission to 1,5 (sotto la guida delle Presidenze delle passate COP29, COP30 e della futura COP31), due iniziative che hanno l’obiettivo di incoraggiare i Paesi a potenziare l’ambizione e l’implementazione degli NDC e dei Piani di Adattamento (NAP), per orientarli verso la traiettoria del net-zero globale entro metà secolo. Una pacca sulla spalla, fatta di chiacchiere e parole a vuoto. L’inconsistenza del testo è tale da aver spinto la Colombia a farsi promotrice lei, al di fuori dei negoziati delle Nazioni Unite, di una prima conferenza globale sull’uscita dai combustibili fossili. 

Pochi risultati anche sul fronte della finanza climatica. Qui il Global Mutirão stabilisce che i Paesi sviluppati dovranno mobilitare almeno 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035 per supportare adattamento e misure di rimborso verso perdite e danni nei Paesi più poveri e vulnerabili. Allo stesso tempo, viene fissato l’obiettivo complessivo di 1,3 trilioni di dollari all’anno entro il 2035 da tutte le fonti pubbliche e private per finanziare mitigazione, adattamento e perdita e danno, in linea con l’Accordo di Parigi. Promesse per il futuro, che rischiano di produrre risultati simili a quelli scarsi o nulli del passato. 

La guerra, elefante nella stanza

La guerra è stato il grande tabù della COP30, nonostante il genocidio palestinese e il conflitto ucraino, guerre entrambe  accompagnate dall’ecocidio nei territori coinvolti. Un tabù che per un attimo ha trovato un suo spazio quando, sulla base del documento Climate Damage Caused by Russia’s War in Ukraine, l’Ucraina ha chiesto alla Russia un risarcimento di 43 miliardi di dollari per i danni causati dalla guerra. Le stime riportate nel documento fanno riferimento a 237 milioni di tonnellate di CO₂ equivalente, accumulate nei tre anni successivi all’invasione su vasta scala. Una quantità pari alle emissioni annuali di Austria, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia messe insieme. 

La guerra è un business che consente alle fonti fossili di proliferare, necessarie a mantenere in vita l’apparato militare. Ma parlare di guerra vorrebbe dire parlare anche degli ecocidi in corso e di tutti gli altri a tutt’oggi ignorati. Vorrebbe dire forse ammettere finalmente  che anche le aziende fossili finanziano le guerre e traggono profitto dai bagni di sangue sparsi per il mondo. In fin dei conti, anche se in maniera sottile, Lula l’ha ammesso: per finanziare la guerra si usano i soldi della transizione energetica e, dovrebbe essere un collegamento naturale: investire in armi anziché nella lotta ai cambiamenti climatici è un cortocircuito politico e culturale. Ed è quello che sta avvenendo in Europa, è il fallimento avviato del Green Deal europeo, è il fallimento della democrazia, in ultima analisi.

E l’Italia?

L’assenza di Meloni alla COP30, con il Friuli in ginocchio a causa delle forti alluvioni, con fenomeni che hanno provocato 400 sfollati e la morte di due persone, è un segnale chiaro del peso che il Governo italiano attribuisce alla crisi climatica. L’Italia non ha aderito alla proposta di abbandono dei combustibili fossili, tanto meno si è mostrata favorevole al Belém Action Mechanism (BAM) sulla giusta transizione. Le politiche energetiche e climatiche italiane continuano ad essere dominate da Eni, gigante fossile nazionale che punta a utilizzare il petrolio anche per la decarbonizzazione. Un paradosso che ENI renderebbe credibile attraverso progetti di Cattura e Stoccaggio della CO₂ (CCS), come quello avviato a Ravenna. Del resto, con Trump alla Casa Bianca era difficile aspettarsi un comportamento diverso dalla maggioranza di destra che governa lo Stivale. 

Una triste conclusione

La COP30 è stata l’ennesima occasione mancata, e poco c’è da aspettarsi dalla futura COP31 in terra turca. Funestata da segnali negativi sin dal partire della COP30, quando l’Istituto Brasiliano per l’Ambiente e le Risorse Rinnovabili ha autorizzato Petrobras a condurre esplorazioni petrolifere nel bacino di Foz do Amazonas, a 530 km dalla foce del Rio delle Amazzoni. Il fallimento della roadmap sulla transizione energetica ne appare la semplice conseguenza. Ancora una volta, forse più del passato, il sistema internazionale che dà vita alle COP è palesemente ostaggio della dipendenza dai combustibili fossili. Negli ultimi anni le grandi compagnie fossili hanno persino rilanciato la loro immagine, presentandosi come leader della transizione verde mentre continuano a espandere estrazioni, concessioni e infrastrutture. E gli Stati nazionali, spesso proprietari delle compagnie fossili, gli stessi Stati che dovrebbero guidare il cambiamento energetico, accettano deliberatamente e ben volentieri l’ipocrisia del rebranding, svuotando dunque le COP di ogni significato politico, sociale e negoziale, contro il loro mandato profondo, un solo e semplice obiettivo: scardinare un meccanismo che rompe gli ecosistemi in cui viviamo, provocando sofferenza e ingiustizia climatica e sociale. L’incendio che ha colpito la Blue Zone a Belem ha fornito anche simbolicamente l’assist perfetto: il fuoco improvviso come causa e pretesto ideale e sufficiente a mandare all’aria il negoziato sulla transizione, se non forse l’intera transizione energetica. Un affronto all’umanità più debole che difficilmente si potrà nascondere dietro iniziali parole piene di speranza della Ministra dell’Ambiente brasiliana e dei suoi colleghi che, con garbo e diplomazia, rimandano la roadmap sull’uscita dai fossili alla COP31 in Turchia, proprio uno dei Paesi che si è opposto all’inserimento delle fonti fossili nel documento finale.  

Cercando una qualche verità in questa COP possiamo dire per l’ennesima volta che difficilmente le soluzioni alla crisi climatica potranno arrivare da chi trae profitto dal provocarla, accettando e finanziando la distruzione dell’habitat planetario. E questo lo hanno bene espresso le popolazioni indigene che si sono prese il loro spazio senza inviti e tessere di ingresso, urlando in mondovisione che la transizione non manca di soluzioni possibili, né di risorse economiche e tecnologie, ma manca di volontà politica. 

Serve una Flottilla globale piena di forza, coraggio e voglia di cambiamento. Per poter mettere in ginocchio un sistema in cui siamo da troppo tempo immersi.