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Il futuro demografico del mondo

La demografia è in cambiamento nel mondo intero, tra bassa natalità e invecchiamento di larga parte della popolazione. Ma allora siamo troppi o troppo pochi? Intervista al demografo Massimo Livi Bacci, oratore del recente convegno Laboss di Fiesole.

Premessa

Mai come in questi ultimi anni la dimensione della popolazione umana è divenuta oggetto di interesse diffuso, talvolta spasmodico, e di crescente apprensione. Da una parte, il calo demografico risulta una tendenza mondiale inesorabile a trenta anni esatti dalla conferenza del Cairo su popolazione e sviluppo. Secondo le più recenti statistiche, un paese su quattro nel mondo deve fare i conti con una popolazione in declino (UN DESA, 2024). Parliamo di un fenomeno complesso che abbraccia il crollo degli indici di fertilità, l’invecchiamento della popolazione e il drastico ridimensionamento della forza lavoro, tra molti altri aspetti della questione. Dall’altra, la versione di quanti predicano la sovrappopolazione mondiale come la più grave minaccia alla sostenibilità del pianeta va ancora per la maggiore. Costoro brandiscono apocalitticamente la soglia demografica dei dieci miliardi di persone che la Terra si appresta a raggiungere nei prossimi anni, secondo consolidate previsioni. La domanda a questo punto è legittima: siamo troppi, o troppo pochi? Ne abbiamo parlato alla terza edizione delle giornate fiesolane del Laboratorio su Salute e Sanità (LABOSS) tra il 10 e 12 settembre, nel fitto dibattito segnato dal titolo “La sanità pubblica: la nostra migliore difesa”. 

La questione demografica è stata usata nella storia come arma a sostegno delle ideologie nazionaliste e delle politiche ad esse ispirate. Oggi, pur nel ritorno sfacciato di queste ideologie su scala globale, ci ritroviamo in un tempo storico dell’umanità definito – almeno nella narrazione del nostro paese – da concetti come “inverno demografico” o addirittura “glaciazione demografica”.  Abbiamo voluto approfondire la questione con Massimo Livi Bacci, professore emerito di Demografia all’Università di Firenze, per un racconto condiviso sulle dinamiche della bassa natalità, i cambiamenti demografici globali e le sfide sociali ed economiche legate all’invecchiamento della popolazione, offrendo spunti di riflessione sul tema delle le politiche familiari, l’immigrazione e l’adattamento dei Paesi industrializzati a questi fenomeni.


Professore, stiamo vivendo un fenomeno globale di bassa natalità, con il numero medio di figli per donna inferiore alla soglia di sostituzione. Questo riguarda ormai quasi due terzi della popolazione mondiale, dai paesi ricchi a quelli poveri, dai contesti industrializzati a quelli rurali, mentre il restante terzo è concentrato soprattutto in Africa sub-sahariana. L’Italia dunque non è un caso isolato. Ci può spiegare come è nato questo fenomeno e come mai la fecondità si è ridotta in misura così consistente a livello globale?

“I processi di dimagrimento demografico, lo chiamerei così, sono l’esito di un lungo percorso cominciato alla fine del Settecento-inizio Ottocento, con la diffusione del controllo delle nascite. Io dico sempre che quando l’umanità ha cominciato a dominare Eros e a tentare di dominare anche Thanatos, cioè la morte, ha iniziato a cambiare profondamente il suo rapporto con la riproduzione. Con la diminuzione della mortalità e l’aumento della speranza di vita, gli uomini e le donne si sono adattati a questa nuova situazione. Hanno cominciato a frenare le nascite, adottando vari metodi di controllo: un fenomeno che è iniziato in Europa e nei Paesi del Nord del mondo sviluppati, e si sta gradualmente estendendo in tutto il resto del pianeta, anche se la popolazione per il momento continua a crescere. 

Oggi quasi due terzi dell’umanità vive in Paesi con bassa fecondità – intorno ai due figli per donna, cioè il livello di rimpiazzo, necessario per mantenere stabile la popolazione – e nei casi più estremi di “bassissima fecondità”, quando siamo intorno a un figlio per donna. Quanto all’altro terzo, l’Africa sub-sahariana ha oggi la fecondità più alta, ma già si intravedono segnali per cui tende o tenderà a convergere verso comportamenti simili al mondo industrializzato, a mano a mano che mutano i contesti sociali ed economici, incluso con i processi di rapida urbanizzazione”.

Quali ne saranno gli effetti in prospettiva? 

“Questo cambio demografico avrà conseguenze durature. La bassa natalità che si diffonde, se mantenuta nel tempo, potrà determinare a qualche decennio di distanza  anche una diminuzione significativa della popolazione mondiale, pur considerando che attualmente la popolazione continua a crescere grazie alla giovane struttura dell’umanità, e un contestuale invecchiamento. Una volta che generazioni meno numerose entreranno nell’età adulta, la crescita tenderà inevitabilmente a rallentare. Le previsioni indicano che verso gli anni ’60 o ’70 di questo secolo la popolazione mondiale smetterà di crescere, entrando in una fase di stazionarietà.

Paesi che hanno ridotto drasticamente la natalità rappresentano esempi di questa tendenza ormai globalizzata: oltre alla storica situazione dell’Italia e del Giappone, da decenni in testa alle classifiche della bassa fecondità, si trovano in questa lista l’Asia orientale e il Medio Oriente – penso alla situazione come la Turchia o l’Iran – e ad alcune aree dell’America Latina – il caso esemplare è il Brasile, ma la stessa cosa vale per Cuba in America Centrale. Non sappiamo davvero, però, che cosa accadrà in futuro, quando raggiungeremo il punto più basso. E, detto fra noi, quale sarà il punto più basso nella dinamica di questi fenomeni? 

Le discipline sociali si arrampicano sugli specchi per dare ragione di questo spirito del tempo, sì, un vero Zeitgeist. È difficile dire se siamo di fronte a una fase transitoria o a un cambiamento permanente. L’umanità è plastica: si adatta alle contingenze. E allo stesso tempo è imprevedibile. Potremmo assistere in futuro a un ritorno a livelli più elevati di natalità, ma non c’è nulla di scritto, proprio perché non c’è un fattore unico che spieghi tutto: questo cambiamento demografico interessa contemporaneamente Paesi ricchi e poveri, industrializzati o rurali, religiosi o meno”.

Questo calo demografico dunque non riguarda solo un tipo di Paese o di contesto sociale: lo osserviamo nei Paesi ricchi e in quelli poveri, in quelli iper-capitalisti.

“Proprio così. La religione sembra non aver un grande effetto. I credo religiosi del resto hanno avuto atteggiamenti diversi di fronte al fenomeno del controllo delle nascite. Il mondo musulmano, ad esempio, non si è mostrato particolarmente ostile, mentre nel mondo cristiano, soprattutto fino ai recenti anni Sessanta, Settanta, ci sono state leggi e restrizioni che hanno reso difficile la diffusione dei contraccettivi e impedito l’interruzione di gravidanza. Ancora oggi in America Latina solo in Argentina vige una legge che regolamenta l’aborto, tanto per citare un caso. Quindi la religione è stato, sì, un fattore di rallentamento, ma relativo. Perché la denatalità è un fenomeno ormai inarrestabile. Se le coppie decidono di avere pochi figli, lo fanno comunque, anche in assenza di leggi sull’aborto e di contraccettivi legali. Negli anni Trenta del secolo scorso, ad esempio, molte coppie di contadini toscani avevano meno di due figli a testa. È un fenomeno che nasce dalla natura sociale e dall’adattamento umano alle circostanze”.

Molti Paesi hanno provato a sostenere la natalità con politiche sociali e incentivi economici – sostegno al reddito, politiche di conciliazione tra lavoro e cura dei figli, politiche sulla casa, fino ai più risicati bonus bebè. Come valuta l’impatto di queste politiche e  quali caratteristiche devono avere queste politiche per essere efficaci nel lungo periodo?

“Le politiche di sostegno alla natalità sono molto varie: in generale, nei casi più illuminati, sono pensate per migliorare le condizioni di vita delle famiglie, ridurre le disuguaglianze economiche, facilitare la conciliazione tra lavoro e cura dei figli… insomma, per eliminare gli ostacoli alla riproduttività o perlomeno facilitarla. Devono però essere durature e coerenti nel tempo queste politiche. Le coppie devono poter contare su un sostegno stabile, anche perché la genitorialità è un progetto di lunga gittata. Non c’è niente di peggio che politiche che vanno e vengono, di misure che un governo introduce per qualche anno e che poi il successivo elimina per motivi di bilancio. Non parliamo poi dei bonus, completamente inefficaci, come dimostra l’evidenza empirica. 

Paesi come la Francia e la Svezia hanno sviluppato sin dagli anni ‘50 una visione di politiche strutturali di sostegno alla famiglia, politiche che hanno dato risultati positivi, in un’ottica bipartisan. Eppure, anche queste politiche stanno dando risultati modesti, come hanno dimostrato le sperimentazioni europee negli ultimi anni: possono generare un aumento temporaneo delle nascite o una piccola ripresa, ma la tendenza di fondo non cambia drasticamente. Del resto, le sfide climatiche e il regime di guerra nel quale ci troviamo, diciamolo a chiare lettere, difficilmente proiettano e incoraggiano le giovani generazioni alla procreazione. Ho poca fiducia che in questo scenario le politiche riescano a far cambiare idee alla gente, e possano raddrizzare una curva così deprimente e depressa della fecondità”. 

Poi ci sono Paesi in guerra che mandano al macello centinaia di migliaia dei loro giovani e fanno contestualmente politiche pro-natalità, come la Russia. 

“La Russia mostra in effetti contraddizioni interessanti, e laceranti: pur mandando centinaia di migliaia di giovani in guerra,  la Russia investe somme incredibili per le politiche pro-natalità; Putin ne parla continuamente, ci sono giornate dedicate al tema che mobilitano in un’ottica nazionalista milioni di persone. Le politiche a favore della famiglia sono ispirate alla attuazione del cosiddetto “capitale materno”, che garantisce somme significative alle coppie con un secondo o terzo figlio, adesso estese anche a chi ha un figlio soltanto. Sono misure costose, e dimostrano che la natalità è una priorità strategica da quelle parti, soprattutto perché la Russia è un Paese con territori vasti e popolazione relativamente scarsa. L’effetto tuttavia è transitorio. Anche in Russia, non solo per via dell’invasione dell’Ucraina, si è tornati alla curva demografica che si stanca”.

E quale ruolo possono avere le politiche migratorie e l’inclusione dei giovani immigrati in un quadro di politiche sociali volte a contrastare la bassa fecondità, e dunque la bassissima natalità, di un Paese come l’Italia?

“Le politiche migratorie sono cruciali. L’Italia ha bisogno di immigranti e continuerà ad aver bisogno di immigrazione come il pane, ma questa deve essere ben progettata, oltre che legale. Insomma, le persone immigrate non si possono abbandonare a sé stesse, in un clima di rifiuto ideologico della loro presenza.   Perché possano mitigare gli effetti della bassa fecondità di un Paese, bisogna investire in sanità, scuola, formazione, casa e diritti sociali per gli immigrati. Solo così diventano una risorsa e possono integrarsi – ed essere inclusi – pienamente. Del resto, dove questo avviene in Italia le frasi ad effetto della politica hanno minore sponda. 

In Italia, ad esempio, molte scuole restano operative grazie ai figli di immigrati, ma l’abbandono scolastico tra i figli stranieri è più elevato, perché spesso i genitori non parlano l’italiano. Investire per valorizzare questi giovani talenti è fondamentale, soprattutto considerando che moltissimi giovani italiani emigrano. I giovani stranieri che crescono qui rappresentano una grandissima opportunità per il futuro del Paese, contribuendo a bilanciare il calo demografico e a sostenere il sistema sociale ed economico, oltre che la qualità della nostra comunità nazionale”. 

Il cambiamento demografico, lo accennava lei prima, riguarda anche l’invecchiamento della popolazione, un fenomeno irreversibile in Europa e in gran parte del mondo. Come bisogna adattarsi a un Paese che invecchia rapidamente?

“L’aumento della popolazione anziana è inevitabile, lo dicono i dati di oggi. I paesi devono, quindi, adattarsi e adattare politiche, tecnologie e innovazioni per ridurre i costi della cura degli anziani e allo stesso tempo valorizzare la loro produttività, il loro contributo sociale. Pensiamo alle malattie come l’Alzheimer e le altre demenze senili: i costi possono essere enormi per le famiglie e per i bilanci pubblici.

Nei nostri Paesi, la tendenza storica è stata abbassare l’età pensionabile: in Italia, ad esempio, l’età effettiva al pensionamento è intorno ai 62-63 anni, mentre molti anziani fino agli ’80 anni sono in buona salute e potrebbero continuare a contribuire alla società. Bisogna quindi favorire la partecipazione attiva”.