I dazi americani sono scattati alla mezzanotte del 7 agosto anche se mancano molti dettagli. Alla nuova mappa dei rapporti (di forza) commerciali manca comunque il tassello centrale: il 12 agosto scade la tregua tariffaria con la Cina.
L’offensiva sui dazi di Donald Trump ha avuto la sua prima vittoria. Per 90 paesi da ieri sono in vigore dazi di almeno il 15% sulle loro esportazioni verso gli Stati Uniti. Al 10% sono rimasti solo gli scambi col Regno Unito. Non è un nuovo ordine mondiale: è il successo di una prova di forza brutale che gli Stati Uniti hanno imposto ai partner più stretti – il Giappone, la Ue, il Canada, il Messico – come ai paesi periferici. Manca tuttavia il tassello più importante: il 12 agosto scade la tregua commerciale con la Cina (con dazi provvisori reciproci al 30%) e un nuovo accordo è in via di negoziato. Pechino ha finora risposto colpo su colpo all’offensiva di Trump e non si farà piegare come gli alleati di Washington. Tra i paesi emergenti, Trump ha aggravato lo scontro con il Brasile di Lula – un avversario politico sul piano internazionale – con dazi che arrivano al 50% su alcune esportazioni, anche come ritorsione per i provvedimenti giudiziari contro l’ex presidente Jair Bolsonaro e i suo tentativi golpisti. Verso l’India di Narendra Modi – un alleato ideologico e politico degli Usa – la minaccia è di imporre dazi fino al 50% come ritorsione per gli acquisti di petrolio dalla Russia.
Ma l’offensiva di Trump è destinata a continuare anche verso i partner più stretti: la Ue è stata minacciata di dazi al 35% se gli investimenti industriali promessi negli Usa non si realizzeranno. Su auto, farmaci e elettronica – tra i settori più delicati per le economie avanzate – le cose restano in sospeso, con le lobby industriali all’opera per ricevere trattamenti di favore. L’assetto che si delinea oggi è destinato a continui scossoni, tanto più gravi quanto più fragile sarà il comando di Trump.
A trent’anni dall’avvio della liberalizzazione – con la creazione dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio, voluta proprio dagli Stati Uniti – siamo a un rovesciamento completo. Al posto del paradigma economico del ‘libero commercio’, che doveva assicurare vantaggi a tutti, e costringeva la politica a togliere le barriere, sta emergendo ora un modello politico di ‘disordine mondiale’ che deve assicurare vantaggi al paese più forte, costringendo l’economia ad adattarsi come può. Il braccio di ferro, i rapporti di forza bilaterali, il ‘caos sistemico’ sono la nuova grammatica che guida le decisioni degli Stati Uniti e che i paesi alleati – a partire dalla resa incondizionata dell’Unione europea – hanno finora accettato. Ma non è questo l’atteggiamento della Cina e dei Brics, per cui la questione commerciale non che uno dei temi caldi al centro di relazioni sempre più difficili con gli Usa.
Quali saranno gli effetti economici di tutto questo? Per la Casa Bianca, l’offensiva ha portato nelle casse del governo federale Usa 152 miliardi di dollari di incassi per i dazi pagati fino alla fine di luglio. Il commercio internazionale rallenta, ma non per tutti. L’Europa è in seria difficoltà, ma le esportazioni cinesi continuano a crescere verso altri mercati. L’esenzione – o i dazi ridotti – per alcune merci essenziali per produzioni e consumi Usa – come le componenti per elettronica e auto – lascerà aperti molti flussi commerciali importanti. Alcune imprese annunciano spostamenti di produzione negli Usa per aggirare i dazi, ma ci vorrà tempo per capire se ci saranno davvero. Intanto alcuni prezzi cominciano a crescere, con gli importatori Usa che scaricano sui consumatori i dazi sui tessili asiatici e sui prodotti alimentari europei, colpendo soprattutto i più poveri. Cadrà la domanda di beni di consumo e resta da vedere se sarà compensata dai nuovi investimenti industriali promessi e dall’escalation della spesa militare Usa.
Il rischio di stagnazione e inflazione, in un’America più chiusa dentro i propri confini, è forte. Ed è questo il nodo dietro l’attacco che Trump ha scatenato da mesi contro Jerome Powell, ancora a capo della Federal Reserve, la Banca centrale Usa, che la Casa Bianca vorrebbe cacciare. E se gli effetti per l’economia Usa non fossero buoni? Poco male, basterà licenziare il responsabile delle statistiche, com’è già avvenuto con Erika McEntarfer, fino a poco fa a capo del Bureau of Labor Statistics. Come il commercio, anche i numeri non saranno più quelli di una volta.