Dilma Rousseff ha davanti a sè un compito molto difficile: districarsi in mezzo ad una coalizione di governo molto rissosa con la parallela necessità di far ripartire l’economia
Dilma Rousseff è riuscita, dopo una battaglia estremamente tesa e incerta sino all’ultimo, a prevalere nelle elezioni brasiliane. Con la sua vittoria ha, tra l’altro, confermato una legge non scritta che riguarda l’America Latina degli ultimi anni e che vuole che nelle elezioni presidenziali dei vari paesi il contendente uscente riesca inesorabilmente vincitore.
Per capire quale fosse la posta politica in gioco e le scelte molto difficili cui si trova comunque ora davanti il Brasile appare opportuno analizzare con un certo dettaglio l’evoluzione della situazione del paese nell’ultimo periodo.
L’epoca di Lula e quella della Rousseff
Dopo decenni terribili caratterizzati tra l’altro da dittatura militare, alto livello di inflazione, povertà molto diffusa, diseguaglianze spaventose, il Brasile ha poi voltato pagina. Ne sono seguiti dei governi democratici che sono riusciti a migliorare la situazione finanziaria del paese. Poi, il nuovo millennio ha visto l’avvio di una nuova fase economica, sociale, politica.
Per più di un decennio quella del Brasile è stata così una storia di successo: tra il 2000 e il 2010, grosso modo l’epoca di Lula, l’economia è cresciuta intorno al 4% all’anno, una cifra interessante se si considera che il paese presentava un reddito pro-capite molto più elevato di Cina ed India, paesi che nel frattempo crescevano parecchio di più. Inoltre le misure sociali di Lula, a partire dalla bolsa familia, hanno contribuito, insieme alla favorevole congiuntura internazionale –aumento della domanda e dei prezzi delle materie prime, afflusso di capitali stranieri-, a migliorare la situazione di decine di milioni di brasiliani e a farli uscire dalla povertà; il mercato del lavoro ha manifestato una forte e continua crescita degli occupati, accompagnata da un aumento rilevante delle retribuzioni. Un sistema bancario in piena espansione ha anch’esso contribuito ad un sostanziale miglioramento delle condizioni del paese e dei ceti meno favoriti.
Così la stessa Banca Mondiale riconosce che il Brasile ha ridotto di tre quarti la povertà “cronica” del paese tra il 2004 e il 2012 e la situazione continua ancora oggi a migliorare. Tra il 2003 e il 2013 il reddito mediano è aumentato dell’87%. Solo il 4,9% dei brasiliani risultava senza occupazione ancora alla fine del settembre 2014.
La successiva epoca della Rousseff sembra caratterizzata, su molti fronti, da un livello di sviluppo molto più deludente: tra il 2011 e il 2013 l’aumento del pil si è collocato in media intorno al 2% annuo, mentre per quello in corso si prevede ormai una crescita intorno allo 0,5%. Intanto gli investimenti esteri, ma anche quelli nazionali, si sono ridimensionati e il mercato del lavoro, che ha continuato a mostrare una grande vivacità sino a pochi mesi fa, ora minaccia di bloccarsi. Il livello dell’inflazione si è fissato negli ultimi mesi intorno al 6,7% contro un obiettivo del governo del 4,5%. L’industria appare in grave difficoltà ed il pessimismo tra i consumatori sembra diffuso.
Che cosa sta succedendo?
Dalla parte degli ambienti economici e finanziari si accusa la Rousseff di aver seguito una politica di maggiore interventismo pubblico rispetto a quella precedente e si invoca come al solito un ridimensionamento del ruolo dello stato con le usuali misure di contorno.
Ma, come suggerisce il sociologo De Castries, il problema è un altro. Il fatto è che sino a qualche anno fa i forti e benefici interventi pubblici nell’economia sono stati finanziati con la crescita della domanda estera di materie prime e di prodotti alimentari, nonché dal forte aumento dei prezzi delle stesse materie prime sui mercati internazionali, trainato in particolare dalla domanda cinese. Più in generale, si stima che circa i tre quarti della crescita economica recente del continente latinoamericano sia attribuibile all’esportazione di commodities.
Ma ora i prezzi delle stesse e la loro domanda sono fermi o in discesa per il rallentamento dell’economia cinese.
La folla che è scesa nell’ultimo periodo nelle strade, composta sia di poveri che di ceto medio, continua a chiedere interventi dello stato per uscire dalla miseria da una parte, per ottenere scuole ed ospedali, trasporti pubblici migliori dall’altra, oltre che per combattere la corruzione; proprio alla vigilia delle elezioni è scoppiato così il grave caso della Petrobas, che coinvolge politici del partito del Presidente.
La spesa pubblica per la sanità si aggira oggi sul 2% del pil, quella per la scuola è relativamente più elevata, ma i risultati dello sforzo sono deludenti. La qualità dei servizi pubblici appare in generale molto bassa. Mentre tra il 2001 e il 2011 gli abbonamenti ai telefonini sono passati dal 16% addirittura al 125% della popolazione, la copertura delle case con adeguati sistemi di fognatura è aumentato solo dal 67 al 74%. Appena il 14% delle strade è asfaltato.
Lula era piaciuto sia ai lavoratori che ai capitalisti. Ai primi aveva portato occupazione, minimi salariali, facile accesso al credito, ai secondi basso livello di inflazione, bassi deficit pubblici, tassazione ridotta, mercati dei prodotti e servizi in espansione e consumatori solvibili. Ma ora la crescita langue e i ricchi non amano quella che vedono come una maggiore interferenza del governo nell’economia, accompagnata da basso sviluppo economico, nonché dall’aumento dell’inflazione e del deficit pubblico.
Finiti i soldi delle materie prime, la sola soluzione che resterebbe per offrire al paese le infrastrutture che servono e un balzo in avanti del welfare sarebbe quella di tassare maggiormente le classi più agiate, mentre il regime di Lula si è caratterizzato per il fatto di non disturbarle troppo. E’ questo il passaggio chiave che il governo sarebbe chiamato a compiere e che forse non ha la forza politica di intraprendere.
Va sottolineato che una situazione analoga si registra peraltro in diversi altri paesi, emergenti e non. L’India avrebbe bisogno di enormi investimenti in infrastrutture e nei servizi del welfare di base e la stessa cosa si può dire per la Russia, ma nel primo e nel secondo paese le risorse fiscali sono scarse ed ora per quanto riguarda il secondo il prezzo del petrolio appare in discesa. La stessa Cina presenta un welfare molto elementare e una bassa incidenza del carico fiscale. Ma nessuno in questi grandi paesi si è azzardato, almeno sino ad oggi, a tassare di più i ricchi. E lasciamo da parte i fatti di casa nostra.
Alcune iniziative recenti della Rousseff
Da quando sono scoccate le proteste la situazione non è sostanzialmente migliorata. Il presidente, che intanto accusa il cattivo andamento dell’economia internazionale per il rallentamento del paese, ha cercato di fare molte cose, ma con scarso successo, almeno sino ad oggi.
La Rousseff ha spinto la banca centrale ad allargare le regole e a liberare risorse per le banche; ma per molti il problema non è quello dell’ offerta di credito, ma di mancanza di domanda da parte del sistema delle imprese, per scarsa fiducia nell’economia. Sempre la Rousseff ha aumentato la spesa pubblica con entrate che però si riducono. Essa ha lanciato, in particolare, un importante programma pluriennale di lavori pubblici già nel 2011, ma i lavori sono in forte ritardo anche a causa dell’inefficienza burocratica e della corruzione. Essa ha tentato personalmente di combattere quest’ultimo fenomeno con decisione, ma la malattia risulta molto diffusa anche all’interno della coalizione di governo e i risultati, dopo qualche successo iniziale, non si sono poi visti molto.
Dopo le elezioni
In un paese che in ogni caso avrebbe bisogno di grandi cambiamenti per tenere dietro ai nuovi dati della situazione internazionale e di quella interna, si trattava di scegliere tra due candidati che si presentavano con dei programmi sostanzialmente antitetici. Il primo, Neves, proponeva nella sostanza il ritorno al neoliberismo stile anni novanta del Novecento, con la riduzione della spesa pubblica e dell’intervento dello Stato, la messa in frigorifero dei temi sociali, una politica estera meno lontana da Washington; il secondo, la Rousseff, poteva mostrare buoni risultati sociali (pieno impiego, salari in crescita, una serie di programmi per le classi più diseredate), ma mediocri risultati economici (su pil, investimenti, inflazione), nonché cattiva gestione della macchina pubblica e gravi problemi di corruzione nei partiti di governo.
Non è certo un caso, su di un altro piano, che la Rousseff vinca nelle aree più povere, il nord ed il nord- est del paese, dove si concentra peraltro la popolazione nera e meticcia e Neves in quelle più ricche, il sud ed il sud est, a prevalenza bianca. Il paese appare così nettamente spaccato in due secondo linee non solo geografiche, ma anche razziali.
Ma, alla fine, la sofferta vittoria della candidata del partito dei lavoratori, che si trova, tra l’altro, a governare con una maggioranza più risicata di prima al Congresso, ha davanti a se un compito molto difficile, quasi da quadratura del cerchio; essa deve districarsi in mezzo ad una coalizione di governo molto rissosa e non esente, qua e là, da vasti fenomeni di corruzione, con la parallele necessità di far ripartire l’economia e quella di aumentare e rendere più produttiva la spesa pubblica, in carenza di risorse. La via d’uscita da tale situazione sembra molto stretta. Appaiono in ogni caso inevitabili dei forti aggiustamenti nella politica economica.