Dis-integrati/Chi sogna la fronda dallo stato-nazione a cui appartiene dà prova di una decisa volontà di sovranità economica. Si tratta di volontà secessionistica dei «ricchi»
PARIGI. Il referendum scozzese del 18 settembre rappresenta un’inversione di tendenza nella Ue, che dopo una decina d’anni ha integrato 13 nuovi paesi, mentre adesso inaugurerebbe una fase di disintegrazione degli stati-nazione? La Scozia ha scelto di restare nella Gran Bretagna, con una confortevole maggioranza. Ma altre scissioni potenziali si profilano all’orizzonte. La Catalogna vorrebbe indire una consultazione popolare per il 9 novembre prossimo, ma Madrid considera l’iniziativa illegale.
Il Belgio cova la divisione da anni, i fiamminghi sognano la scissione dai valloni francofoni e la questione è stata al centro delle due ultime legislative (2010 e 2014), seguite, in entrambi i casi, da lunghi periodi – uno è ancora in corso – di assenza di governo (nel 2010, con 541 giorni senza esecutivo, il Belgio ha battuto il record mondiale). L’Italia del nord (nella versione della Padania oppure del solo Veneto), i Paesi baschi, forse anche la Sardegna, sono altre ipotesi di scissione che fanno discutere, in un’Unione che da una quindicina di anni accelera il trasferimento di sovranità dagli stati nazionali verso Bruxelles.
Finora, però, l’Ue ha conosciuto soprattutto il movimento opposto, culminato con l’unificazione tedesca del ’90 (la scissione tra Repubblica ceca e Slovacchia è avvenuta prima che i due paesi entrassero nella Ue nel 2004 e, lo stesso anno, la Ue ha accettato l’entrata di Cipro senza la parte occupata dalla Turchia, una situazione creatasi in precedenza). Resta però il fatto che la Cee, ora Ue, è nata come una risposta ai nazionalismi e alla violenza degli stati. Il percorso ad ostacoli verso il federalismo, obiettivo in realtà sempre più lontano se non addirittura tramontato, ha permesso l’integrazione degli interessi regionali nei trattai europei nell’ipotesi lontana di un’Europa delle regioni unificata in uno stato federale sovranazionale: dall’Atto unico dell’86 a Maastricht che nel ’94 ha permesso la creazione del Comitato delle Regioni, che gestisce i fondi strutturali e che, con il Trattato di Lisbona, deve ormai essere consultato dalla Commissione per ogni legge che tocchi gli interessi regionali. A sua volta, il Consiglio d’Europa (organizzazione di difesa dei diritti umani, nata nel ’49, che raggruppa 47 paesi), ha varato la Carta delle lingue minoritarie e regionali, che ha favorito la loro difesa e trasmissione. Ma l’attuale movimento verso quella che i detrattori temono che si traduca in una «balcanizzazione della Ue», è in realtà contrastato dalla caratteristica dominante delle velleità di scissione: le regioni che sognano la fronda dallo stato-nazione a cui appartengono, danno prova, senza eccezioni, di una decisa volontà di sovranità economica. Si tratta, difatti, di una secessione dei «ricchi». È stato il caso della Scozia, che al di là del romanticismo di cui si è colorato il sogno di indipendenza, non ha disdegnato il riferimento al controllo delle entrate petrolifere. E’ il caso della Catalogna, delle Fiandre, del nord Italia, regioni ricche che non vogliono pagare per i più poveri. Del resto, questo tipo di secessione è una riproduzione di quello che esiste a livello degli stati, dove i più ricchi – Germania in testa, con l’irruzione nell’arena politica di Alternative für Deutschland, che espone esplicitamente il suo obiettivo – hanno sempre meno intenzione di «pagare» per i più poveri.
La Ue non ha previsto nei Trattati l’ipotesi di una secessione all’interno di uno stato membro. Anche se ai tempi della dissoluzione della Jugoslavia, vari stati membri, Germania in testa, si sono precipitati a riconoscere gli stati nati dalla guerra, a cominciare dalla Slovenia e dalla Croazia, entrambe entrate poi successivamente nella Ue (rispettivamente nel 2004 e nel luglio 2013), oltre ad aver promosso nel 2008 la costituzione del Kosovo, aprendo il riconoscimento a stati che hanno fatto scissione su una base etnolinguistica. Al momento del referendum scozzese, si è discusso molto della questione dello statuto nella Ue di un nuovo stato frutto di una scissione. Il Trattato di Lisbona prevede la possibilità di uscire dall’Ue, ma c’è un vuoto giuridico sulla possibilità di rientrarvi per una parte scissionista di uno stato membro. C’è pero’ il fatto che non è possibile privare un cittadino della Ue dei diritti di cui gode: ne era beneficiario prima come cittadino di uno stato membro, deve mantenerli anche in caso di scissione. Inoltre, esiste l’articolo 34 della Convenzione dell’Onu sulla successione di stati, firmato a Vienna nel ’78 ed entrato in vigore nel ’96, che stabilisce che ogni trattato in vigore al momento della scissione dello stato resta in vigore per lo stato successore. Ma la Gran Bretagna e la Spagna non hanno mai ratificato questa Convenzione, probabilmente anticipando i casi della Scozia e della Catalogna.