Dis-integrati/Senza mostrare nessuna simpatia per Putin e per il suo modo di gestire la Russia, appare evidente però che quanto accaduto a Kiev è stato prodotto dagli Stati uniti
Dopo i lunghi anni di grave crisi economica seguiti alla caduta dell’Unione Sovietica l’economia russa ha preso a crescere velocemente a partire dal 1999 ed i tassi di aumento del pil si sono aggirati a lungo intorno al 7% all’anno. Così nel periodo 2000-2012 il reddito medio pro-capite è raddoppiato.
Ma comunque dal 2009 in poi, con la crisi, i tassi di sviluppo sono diminuiti fortemente. Nell’ultimo periodo, in relazione anche alla tempesta ucraina, la prospettive si sono fatte anche più incerte. Le previsioni ufficiali parlano di un aumento del pil dello 0,5% per il 2014 e dello 1,0% per il 2015.
In un articolo di qualche anno fa ricordavamo alcune caratteristiche del modello di sviluppo del paese, che permangono sostanzialmente inalterate anche oggi: 1) importanza fondamentale del settore energetico e minerario e, per contrasto, rilevante debolezza dei settori manifatturiero ed agricolo; 2) forte presenza dello stato nell’ economia, con un intreccio perverso tra i settori pubblico e privato, attraverso la formazione di alcune reti pubblico-privato che contribuiscono a determinare una grande concentrazione del potere, arrivando a configurare un capitalismo di tipo oligarchico; 3) grande apertura esterna dell’economia; 4) grande concentrazione della ricchezza; 5) presenza di uno stato autoritario con forti livelli di corruzione, di criminalità, di inefficienza diffusa.
Perché la crisi ucraina?
Senza certo mostrare nessuna simpatia per Putin e per il suo modo di gestire la Russia, appare evidente che la crisi ucraina è stata prodotta dagli Stati Uniti.
Si può dire che essi perseguono apparentemente, con tale mossa, diversi possibili obiettivi: continuare a cercare di accerchiare e a stringere da presso la Russia, opzione tradizionale della politica Usa da alcuni decenni; bloccare la tentazione sempre più evidente in particolare della Germania, ma in parte anche di altri paesi europei, a sviluppare delle relazioni più strette con Russia e Cina; preparare il terreno ad un eventuale sostituzione delle forniture energetiche russe all’Europa con quelle statunitensi; provocare conflitti e disordini nel mondo per poi presentarsi come la sola potenza in grado di gestirli (caso tipico del pompiere piromane) e così cercare di mantenere il suo potere egemone nel mondo, che tende peraltro a sfuggirgli; sullo sfondo, la mossa si può anche forse inserire in una strategia molto complessa di contenimento dello sviluppo cinese.
Le sanzioni
Le sanzioni messe in atto dai paesi occidentali riguardano in sintesi il blocco di futuri accordi con il settore militare russo, la restrizione all’accesso ai capitali occidentali, la proibizione alle imprese di fornire le tecnologie necessarie per sviluppare l’estrazione di gas e petrolio in ambienti difficili, il blocco in occidente dei beni di alcune persone legate al Cremlino.
Ma la Russia ha risposto con delle controsanzioni. Essa ha bloccato le esportazioni di gas all’Ucraina ed ha ridotto quelle ad alcuni altri paesi sospettati di deviare parte delle loro forniture alla stessa Ucraina.
Ha inoltre chiuso le importazioni di prodotti agricoli per i paesi che hanno partecipato alle sanzioni; ha anche messo il lucchetto ad alcuni ristoranti McDonald a Mosca; ha infine ristretto la possibilità per le società occidentali di operare nel settore dei media.
Molte sono anche le ulteriori misure minacciate per un prossimo futuro.
Gli effetti delle misure
Sul fronte economico le sanzioni contribuiranno a deprimere ulteriormente le prospettive della crescita del pil nel prossimo futuro, già da qualche anno in perdita di velocità.
Sul piano finanziario si dovrebbero registrare delle grandi difficoltà di approvvigionamento di prestiti sui mercati internazionali cui le grandi imprese erano abituate.
Si potrebbe poi avere una riduzione dei già anemici investimenti in relazione anche alla plausibile riduzione dei prestiti bancari verso le piccole imprese, mentre le grandi hanno le connessioni politiche ed i contratti pubblici necessari per schivare il colpo.
Per quanto riguarda il blocco delle forniture di tecnologie per il settore energetico esso potrà forse rallentare per un po’ lo sviluppo del settore, ma non fermarlo; il paese dispone di capacità scientifiche di primissimo livello che potrebbero essere concentrate nel risolvere gli eventuali problemi.
A livello statale l’esistenza di grandi riserve valutarie, stimabili in circa 470 miliardi di dollari, dovrebbero permettere di stare tranquilli, anche se qualcuno adombra qualche difficoltà a finanziare contemporaneamente gli aiuti pubblici necessari per le industrie colpite dal blocco dei finanziamenti e gli impegni in materia di welfare; la Rosneft da sola ha chiesto allo stato 40 miliardi di dollari di nuove risorse.
Va ancora segnalato che nel 2014 la crisi ucraina ha comportato una fuga massiccia di capitali, stimata in circa 75 miliardi di euro nella sola prima metà del 2014, accelerando la precedente caduta del rublo ed un certo aumento dei prezzi.
La Banca Centrale ha venduto grandi quantità di divise estere per controllare il processo ed ha aumentato i tassi di interesse sino all’8% di luglio. A fine agosto 2014 il rublo si era ormai svalutato del 20% nei confronti del dollaro rispetto all’inizio del 2013.
Ma tale svalutazione tende peraltro ad avere degli effetti positivi sui risultati di alcuni settori produttivi.
Le conseguenze per l’Europa
In relazione allo sviluppo degli avvenimenti, imprese come Adidas, Siemens, Metro, Shell, Erste group, Total, BP, Visa, Master Card, Exxon Mobil, ed altre hanno emesso dei comunicati a vario titolo preoccupati. La Exxon ha appena scoperto l’esistenza di grandi quantità di petrolio in un pozzo che stava esplorando insieme alla Rosneft, ma ora dovrebbe rinunciare al suo sfruttamento.
Nel caso specifico della Germania, sono particolarmente colpiti il settore dell’elettronica, alcune fasce della meccanica, l’alimentare. Da considerare che circa 350.000 impieghi in Germania dipendono direttamente dal commercio con la Russia. Ma per altri versi la bilancia dei pagamenti tedesca va per il momento complessivamente bene.
Per la Ue ovviamente, come per la Russia, la crisi viene in un momento inopportuno, portando ulteriori difficoltà in un’economia già anemica, non solo per gli effetti immediati che essa comporta, ma anche per il clima di incertezza che essa genera.
L’embargo sui prodotti agricoli è valutato in una perdita di importazioni pari a circa 16 miliardi di dollari all’anno per la sola Ue.Un incremento della produzione nazionale russa non riuscirebbe a coprire che una frazione del fabbisogno. Così il paese sta espandendo le relazioni commerciali con alcuni paesi dell’America Latina, con in testa il Brasile, soprattutto per quanto riguarda la carne, ma anche latte e ortaggi. Dalla Turchia come dalla Cina verranno frutta e ortaggi (Ishikawa, 2014). Delle opportunità si presentano anche per l’India.
Il ruolo della Germania
Al di là delle possibili difficoltà congiunturali portate al paese dalla crisi ucraina la Germania si trova oggi ad un bivio importante della sua storia: mentre l’economia rallenta – le esportazioni, quando va bene, non possono crescere più di tanto e le spinte ad una crescita del mercato interno sono frenate dall’ideologia dell’austerità –, essa è divisa tra il mantenimento della fedeltà agli Stati uniti e la necessità di sviluppare gli accordi con la Cina e la stessa Russia, opzione di lungo termine delle strategie tedesche.
Certamente gli Usa negli ultimi tempi hanno dato più di un’occasione alla stessa Germania per perdere le staffe – i continui rimproveri sulla sua conduzione dell’economia, la scoperta di alcune spie, l’affare degli ascolti della Nsa, il Ttip ora severamente criticato dal vice primo ministro socialdemocratico, infine l’operazione ucraina.
Apparentemente gli interessi dei due paesi non coincidono più molto.
Così una rivista come Limes arriva a ipotizzare un asse Germania-RussiaCina che cambierebbe i dati della storia mondiale (Limes, 2014).
I rapporti con la Cina
Ma forse l’effetto di maggior rilievo della vicenda riguarda il fatto che le sanzioni spingono la Russia a aprirsi verso la Cina, anche se l’incontro più stretto tra le due potenze è ostacolato dalle reciproche diffidenze e pregiudizi.
Come è noto, gli accordi firmati di recente, sotto la pressione delle sanzioni occidentali, prevedono la costruzione di un grande gasdotto e la fornitura alla Cina di rilevanti quantità di gas per molti anni; dietro la Cina si sono precipitati nel varco anche Giappone, Corea del Sud, India, per ottenere anch’essi una parte del gas siberiano.
Sono previste delle intese anche su degli altri fronti, quali la collaborazione tecnologica per lo sviluppo di aerei, la crescita delle attività di una società finanziaria in comune già esistente, la creazione di un ente tra i due paesi per il rating delle imprese, progetti nel settore delle carte di credito.
Più recentemente va registrata l’offerta di far partecipare la Cina allo sfruttamento di un grande giacimento petrolifero nella Siberia Orientale, quello di Vankor, per il quale le potenzialità economiche sono forse ancora più grandi che nell’accordo per il gas.
Un risultato prevedibile delle sanzioni è poi quello che molte grandi imprese russe stanno spostando una parte almeno delle loro riserve di cassa a Hong Kong presso le banche cinesi (Furukawa, 2014). Ancora più importante appare in prospettiva la possibilità che si sviluppino fortemente gli interscambi commerciali regolati in rubli e in yuan, invece che in dollari, anche per quanto riguarda il settore energetico (Bloomberg, 2014). Intanto diverse imprese russe stanno pensando di emettere obbligazioni in yuan.
Si è parlato da molte parti del varo di una stretta alleanza politica tra i due soci, ma sia lecito esprimere qualche dubbio in proposito. Certamente un a tale ipotesi porterebbe ad enormi sviluppi economici e politici, ma va ricordato che la Cina ha firmato l’accordo sul gas dopo anni di esitazione e che peraltro non è del tutto chiaro quanto l’alleanza sia di lungo periodo o soltanto tattica. Manca ad oggi una visione comune degli affari del mondo ed un’analisi condivisa della situazione del globo.
Lo sviluppo delle ricchezze della Siberia potrebbe sollevare le sorti economiche del paese. Ma esso non ha le risorse umane, tecnologiche, finanziarie, per farlo. Ai suoi confini preme la Cina che potrebbe dare un forte contributo all’opera. Ma la Russia teme che essa, con la sua popolazione, la sua energia e il suo dinamismo, si impadronisca sostanzialmente del paese. Quindi essa esita e cerca di coinvolgere comunque nel progetto anche Giappone e Corea del Sud. Il quadro al momento appare incerto, anche se qualche accordo limitato sta andando avanti.