Senza volere negare l’esigenza di stabilizzare un settore dell’economia ad alta innovazione, anche tecnologica, il problema è quello di qualificare i consumi interni
L’industria manifatturiera ha contribuito alla formazione del Pil dei 27 paesi della Ue per circa il 15% nel 2012, in calo dal 18% del 2000. La produzione manifatturiera è fortemente concentrata in alcuni paesi che tutti assieme raggiungono circa il 70%: la Germania, per un quarto, seguita dall’Italia, dalla Francia, dall’Inghilterra e dalla Spagna. Il resto è distribuito in quote sotto il 5% (1); nel corso degli anni si è prodotto uno spostamento del baricentro manifatturiero dell’Europa verso Est grazie agli investimenti esteri diretti (Ide) verso i dodici paesi allora nuovi entranti. Il contributo al Pil di ciascun paese da parte della manifattura è, infatti, sopra la media Ue in quindici paesi e tra quelli ci sono Germania (al quinto posto) e Italia (al tredicesimo), e poi, nell’ordine, Romania, repubblica Ceca, Islanda, Ungheria, Slovacchia, Lituania, Slovenia, Austria, Polonia, Bulgaria, Svezia, Finlandia, Estonia. I dodici con l’eccezione dell’Islanda e della Finlandia fanno parte del sistema produttivo tedesco allargato, un sistema nato da un flusso di Ide, molto consistente dal 2001, orientato a creare catene di sub-fornitura delle industrie tedesche, la cui logica fu spiegata esaurientemente in un celebre saggio di Sinn (2); l’Italia partecipa al sistema industriale tedesco (3) in una specifica configurazione, pur essendo anche autonomamente attiva nella creazione di catene di sub-fornitura ad Est. Come hanno osservato Simonazzi e i suoi colleghi (2013) (4), citando la Deutsche Bank, la differenza sta nel fatto che la Germania delocalizza tutto meno gli stadi finali della produzione, mentre l’Italia delocalizza l’intero processo.
La composizione dell’industria manifatturiera
La conseguenza di tutto ciò è che il ruolo di locomotiva d’Europa, auto-attribuitosi dalla Germania, non può essere analizzato solo in termini di equilibrio della bilancia delle partite correnti da un lato e di effetti redistributivi di quote della produzione dalla Germania verso gli atri paesi europei ma in termini anche qualitativi. Si tratta cioè di vedere che tipo di produzione viene delocalizzata e che intreccio si determina tra produzione e commercio di beni intermedi e di beni capitali. Da questo punto di vista è facile vedere che la natura dei processi di delocalizzazione tedeschi fa sì che la composizione produttiva dei sistemi industriali satelliti sia in larga misura determinata dalle esigenze di crescita dell’industria tedesca che è fortemente orientata all’esportazione, quindi a sua volta dipendente dalla dinamica dei consumi dei nuovi paesi emergenti, specificatamente dai consumi opulenti di tali paesi. Il complesso d’interazioni tra questi livelli di produzione e di consumo è particolarmente intricato, come la crisi iniziata nel 2007 ha reso evidente (5). Il calo dei consumi simultaneo su scala globale ha colpito pesantemente tutta la catena produttiva legata all’export, con arretramenti drammatici confrontabili, come sostiene la Confindustria per l’Italia, con i danni di una guerra (perdita del 25% del Pil e del 15% del potenziale medio manifatturiero italiano con punte oltre il 20% in 14 settori su 22). Questo calo, sino ad ora recuperato, in termini di Pil, solo dalla Germania (6), non ha prodotto una modifica del modello, ma solo un effetto di ristrutturazione, con perdita di capacità produttiva, in molti paesi e un ulteriore processo di concentrazione industriale, attraverso fusioni e acquisizioni che stanno riprendendo con grande vigore. I paesi europei la cui dinamica manifatturiera è largamente integrata con quella dell’industria tedesca, nel momento del crollo e poi ridimensionamento, hanno scoperto che senza il contributo della domanda interna non possono avere alcuna crescita industriale; ma la deflazione salariale (7) e la crescente insicurezza lavorativa, considerate essenziali per sostenere una politica neomercantile, non consentono di sviluppare una significativa domanda interna. La Germania, inoltre, importa, dagli altri paesi europei, i beni che sono di sostegno al suo export – molti beni industriali intermedi -, gli altri paesi non sono in grado di fare altrettanto e quindi lo squilibrio delle partite correnti non può essere letto solo in termini quantitativi, ma mette in evidenza un problema di composizione della base industriale; nello squilibrio diretto con la Germania l’Italia non è uno dei paesi più in difficoltà grazie al fatto che, nel Nord, un insieme di Pmi, ultra-minoritario in termini di peso complessivo, è riuscito a costruire delle proprie eccellenze di esportazione, autonome dalla Germania (8). Gli effetti depressivi della domanda interna hanno riguardato anche la Germania con effetti tutt’altro che trascurabili come dimostrano i dati di chiusura del 2013, relativi al Pil tedesco. Effetti depressivi che nascono non solo dalla deflazione salariale degli ultimi anni ma da una profonda trasformazione del mercato del lavoro e del sistema di Relazioni Industriali (9) che ha portato alla creazione di un esercito di sette milioni di lavoratori a basso salario e a vere e proprie sacche di miseria. Il modello neomercantile tedesco, quindi, si è alimentato non solo con le delocalizzazioni degli impianti finali e di larga parte della catena di sub-fornitura in paesi con salari più bassi e minori protezioni del lavoro, ma anche dalla segmentazione del mercato del lavoro nazionale.
Il modello di riferimento
Il discorso si complica se usciamo dal modello dominante, implicito nel rapporto, che indica come strada maestra la via alta di un’economia technological and knowledge intensive con un alto valore aggiunto, in modo tale da vincere la partita della conquista globale delle quote di mercato. Se ci spostiamo da una strategia economica basata su “alti investimenti, alti profitti” nella direzione di un’economia basata su “bassi investimenti [privati], alti consumi, e di pieno impiego”(10) e ambientalmente sostenibile, allora la prospettiva cambia. Parliamo naturalmente non dei consumi odierni. L’una si basa su dei consumi privati opulenti in una società molto ineguale, la povertà in mezzo alla ricchezza. L’altra guarda non solo al livello ma alla qualità sociale dei consumi; quindi a consumi sociali, cioè quei consumi che servono a dare risposta a una serie di domande sociali oggi parzialmente o totalmente insoddisfatte, da quelle legate al benessere psico-fisico a quelle legate alla conoscenza. La prima, come le ricorrenti crisi dimostrano, pur sostenendo in forme esasperate, come il boom dell’indebitamento delle famiglie, un consumismo senza fine non riesce a dare stabilità sociale. Ecco allora che senza volere negare l’esigenza di stabilizzare un settore dell’economia ad alta innovazione, anche tecnologica, e ad alto valore aggiunto, il problema diventa quello di sviluppare e qualificare i consumi interni. Si tratta naturalmente di intendersi su cosa si intenda per consumi interni da fare crescere. Il concetto di bisogni e domande sociali o di consumi di natura pubblica, compresi gli investimenti pubblici e le misure di welfare, non basate principalmente su trasferimenti monetari, sono il modello che ho in mente.(11)
Quest’articolo è una sintesi di un lavoro più ampio su l’Europa e l’industria che è scaricabile qui:
1 mia classifica basata sull’ EU Industrial Structure Report 2013, op. cit. 2 Sinn, H-W (2006) – The Pathological Export Boom And The Bazaar Effect. How To Solve The German Puzzle. The World Economy, n. 9. 3 Simonazzi, A., Ginzburg, A., and Nocella, G., (2013), – Economic relations between Germany and southern Europe. Cambridge Journal of Economics, vol. 37, 2013, pp.653–675 4 ibidem, pp. 660-661 5 la crisi 2007-2013 è composta di due periodi recessivi distinti – si è avuto il temuto double dip – che per l’Italia vanno dal terzo trimestre 2007 al secondo trimestre 2009 e poi dal secondo trimestre 2011 all’ultimo trimestre 2013. Il tracollo dell’export ha riguardato il primo “tuffo”; nel secondo vi è stata una notevole ripresa dell’export. 6 Sul piano manifatturiero i livelli massimi pre-crisi sono stati recuperati dai paesi Baltici, e da Polonia, Romania e Slovacchia. 7 A sorpresa il 2013 ha visto un ulteriore episodio di deflazione salariale anche in Germania – Wolfgang Münchau – Europe cannot ignore its def lation problem – Financial Times: 24, febbraio, 2014 8 rapporto I.T.A.L.I.A geografie del nuovo made in Italy– http://www.symbola.net/html/article/ITALIA, visitato il10 febbraio 2014 9 Garibaldo, F. – La codeterminazione in Germania – in Gianni, A. et al. – La partecipazione dei lavoratori all’impresa. Rapporto per Eni Corporate University a cura della “Fondazione Cercare Ancora”- http://www.francescogaribaldo.it/pubblicazioni, visitato il 18 febbraio 2014 10 Minsky, H. P., 2008, Stabilizing an unstable economy, McGraw Hill (1st ed. 1986), p. 329 11 Minsky, H. P., 2008, John Maynard Keynes, McGraw Hill (1st ed. 1975) pp. 154 -166