Il concetto di euro-sclerosi fu coniato negli anni 80 per indicare un mercato del lavoro sclerotico. Oggi le arterie della vecchia europa sono di nuovo intasate. E la più grave crisi da ottanta anni a questa parte non ha ancora trovato una chiave di lettura
Forse in pochi ricordano un termine venuto di moda in certi circoli negli anni ’80 – Euro-sclerosi – per indicare un mercato del lavoro “sclerotico”, come fossero le arterie otturate della vecchia Europa, a fronte di un’economia comunque in crescita che non lasciava fluire i lavoratori dentro e fuori, a differenza di quello americano a quel tempo più “dinamico”. Ne parlarono Olivier Blanchard e Larry Summers, allora “giovani economisti” promettenti, in un famoso articolo del 1986 sull’isteresi della disoccupazione europea (agli economisti è sempre piaciuto rifarsi ai fisici e prenderne a prestito i termini con ben altro significato). L’Euro-sclerosi come sinonimo di alta disoccupazione e bassa mobilità. Non che gli Stati Uniti stessero poi così meglio, a quel tempo, e con il senno di poi lo si può ben dire, visto che il productivity slowdown cominciato alla fine degli anni ’70 faceva ancora sentire i suoi strascichi. E, anche lì, giù a dare la colpa al mercato del lavoro. Gli anni sono passati, e di acqua sotto i ponti ne è passata al punto di allagare, esondare, ritirarsi in siccità e cambiare il mondo.
Oggi siamo nel mondo del post, il postmoderno, il post-capitalismo, il post-comunismo (ce lo siamo già dimenticati). La globalizzazione ha spazzato via tutto, dopo la crisi finanziaria delle tigri asiatiche (1987), il crollo del muro di Berlino (1989) e delle economie sovietiche (1991), le terapie shock (1991-96), la bolla del dot-com (1999-2000), la bolla immobiliare (2004-07), la crisi dei sub-prime (2007-08). A quel tempo la Cina era ancora un nano, oggi è l’Orco dell’economia mondo. E se quell’Euro-sclerosi appare lontana come fosse un’altra era geologica, le arterie della vecchia Europa si sono di nuovo intasate. Ma questa volta, potremmo dirlo, non sono quelle del mercato del lavoro: sono quelle dell’Economia e dei suoi signori e dei suoi governanti. L’Euro-sclerosi ha il suo ceppo infettivo a Bruxelles, nelle stanze della Commissione Europea, in quelle della Eurotower di Francoforte, e in vari altri importanti centri di potere.
Per una crisi che da più parti è stata riconosciuta come “la più grave dai tempi della Grande Depressione”, tanto che molti la chiamano la Grande Recessione, quali politiche, quale grandioso disegno è stato concepito? Nessuno. Non me la faccio con i “politici”, qui, che oggi è come sparare a un uomo morto, ma con i loro ispiratori. Se fu Franklin Delano Roosevelt a portare avanti il New Deal, contro l’opposizione feroce dei conservatori cui dovette concedere molto – come ad esempio la non universalità della copertura della spesa sociale che esso inaugurò – furono pensatori come John Maynard Keynes e Lester Ward e tutto il pensiero progressivo americano a tracciarne le linee guida ispiratrici. Non solo una politica fiscale espansiva (possibile che ancora l’insegniamo ai nostri studenti, come caso da manuale, e si faccia tanta fatica ad accettarne la possibilità?), ma uno Stato che si prende cura dei suoi ceti più deboli, sulla base non solo di un principio economico – sono consumatori anche loro: dategli un salario e lo spenderanno – ma di un principio di equità e giustizia. Lo stato sociale rooseveltiano fu il pendant americano dello stato sociale europeo, che partì da Beveridge e fu poi sposato dal Labour inglese nel dopoguerra e poi dall’Europa tutta, quella democristiana tedesca bismarckiana e interclassista italiana, quella universalistica francese. Sappiamo quanto in Italia anche l’esperienza comunista di governo degli enti locali abbia poi coniato stato sociale, logica inclusiva cooperativa e competitività d’impresa. Ma, si dice, quelle esperienze furono possibili perché “erano anni di vacche grasse”. E tutto è poi degenerato nel “consociativismo” se non nel “clientelismo”. E in ogni caso oggi non c’è trippa per gatti.
Il punto è che, comunque la si guardi, la più grave crisi da ottanta anni a questa parte non ha ancora trovato una chiave di lettura, una politica guidata da un principio ispiratore che porti al suo superamento. Non che manchino pensatori illuminati: è che non c’è consenso. La Grande Depressione ebbe un effetto devastante perché finì per colpire ceti medi, masse popolari e élites imprenditoriali, quasi a 360 gradi, di qua e di là dall’oceano. Certo, ci fu poi una guerra mondiale che se portò distruzione e morte a suo modo contribuì alla crescita – eccome – con la ricostruzione che ne seguì. E dopo la guerra il consenso verso le politiche espansive fu generalizzato.
Perché oggi non vi è consenso sulle vie di uscita dalla crisi? Non voglio qui affrontare un tema che non solo non saprei modestamente trattare in poche righe, ma che non sarebbe giusto liquidare in pochi paragrafi. Ma voglio però puntare il mio dito contro il furore ideologico che appanna l’odierno discorso pubblico, ormai universale. L’economia odierna è nelle mani di pochi – non un complesso pluto-giudaico-massonico d’antan – ma semplicemente una élite transnazionale che governa l’economia sovra-nazionale. È l’élite che governa quella parte dell’economia finanziaria che negli ultimi decenni è cresciuta a dismisura – e che è pari a n volte il valore dell’economia reale della produzione di beni e servizi. È l’élite dell’1%, i cui redditi e i cui emolumenti sono cresciuti fino a diventare cento, mille, diecimila volte maggiori di quelli del 99% della popolazione (dei paesi “avanzati” e non). È l’élite che regge le sorti di nazioni intere: il turn-over delle più grandi corporations multinazionali è pari oggi al pil di non so quanti paesi, il capitale di quelle stesse corporations è nelle mani di poche centinaia di persone che non hanno nazionalità perché sono transnazionali. Ne hanno già parlato in molti – da Saskia Sassen a Zigmunt Bauman, da Guido Rossi a Paul Krugman, da Noam Chomsky a Mark Weinsbrot –. Questa élite è composta di americani, inglesi, tedeschi, italiani, cinesi, giapponesi, israeliani, finlandesi, svedesi, olandesi, finanche angolani, messicani, colombiani, brasiliani, indiani. Ha regolare passaporto (anzi più di uno), va a fare shopping nelle metropoli à la page, poi torna a casa nei weekend, regala ai figli l’ultimo I-phone e spende ovunque in valuta pregiata – non sono forse i beni di lusso che vanno fortissimo negli ultimi tempi? – . Perché mai questa élite è così influente? Perché può decidere di vendere con una sola telefonata metà del debito sovrano di un paese, metà delle azioni di una grossa banca, e mandare un’intera popolazione “in vacca”, d’un colpo. Non paga le tasse, e dove gliele fanno pagare ne paga la metà dei suoi dipendenti. Ma, si dice, “crea ricchezza”. Possiamo forse ostacolare la naturale dinamica del mercato capitalistico? Dove c’è innovazione c’è profitto, un enorme profitto, la finanza serve poi solo a moltiplicarlo.
Sono le 100 persone più ricche e influenti del mondo che contano (e guadagnano quanto il reddito di due miliardi di abitanti del pianeta terra). Il resto dell’umanità può solo accodarsi e sperare che si comportino bene e benevolmente. Per un Mark Zuckenberg che si compra una villa da 10 milioni a Palo Alto e tutte le ville intorno – per non avere fastidi con i vicini – ci sono mille, centomila che sono lì che smanettano con le loro app sperando di diventare ricchi. E meno male, dice l’Economist, così si favorisce la concorrenza. Il problema è però che l’economia si è fatta via via sempre più piramidale e ormai tra i più ricchi e i più poveri c’è una distanza che non si era mai vista dagli albori della storia, nemmeno ai tempi dei sovrani divini. È solo un mercato libero, vivace, dinamico, che può produrre innovazione e quindi ricchezza, questo è il mantra: tanta ricchezza per pochi e che quei pochi diventano ricchi non per volere divino né per eredità, ma perché “sono stati capaci”. Questa è la religione del nostro tempo: per permettere a pochi “scelti a caso” – non “prescelti” – di diventare qualcuno, il prezzo da pagare è che tutti gli altri debbano poi sgomitare per sbarcare il lunario. È questa la vera democrazia dell’economia: non c’è più diritto divino né di casta ma solo il mercato che consente ai pochi di farcela (e che sia poi a scapito dei molti, è solo una triste conseguenza). Ci vorrebbe una postilla, in effetti: quanto sia veramente “democratico” il mercato delle possibilità, ma questa è un’altra storia.
La crisi di questi anni ha reso tutto questo evidente. Le praterie per questi nuovi eroi della frontiera sono lì davanti, sterminate, solo la finitezza del pianeta li potrà fermare ormai. Non i confini nazionali, non le regole, non i governi, le tasse, la polizia o la Cia. È solo il mercato che li può fermare. Non c’è più il potere di contrattazione dei lavoratori: se non ti va bene, prendo un altro, se non trovo un altro qui, cambio paese. Ma quali sindacati, ma quali politiche dei redditi! Se il tuo governo mi tassa troppo, io cambio sede al mio headquarter, vado dove più mi conviene. Mai come negli ultimi anni le multinazionali hanno fatto i profitti che hanno fatto (consultare le classifiche di Fortune e dell’Economist per rendersene conto). Certo, il buon vecchio capitale nuts-and-bolts fa ancora fare buoni affari – il turn-over delle Oil companies, della Ibm, della Nestlè o della Monsanto è sempre considerevole – ma sono le internet-companies-plus-financial-innovators, è il superamento dei confini – nazionali, settoriali, economici – finalmente in libertà che ha sancito la definitiva conquista del West.
E noi comuni mortali? E i nostri pii governanti, comuni mortali anch’essi? Gli Olin Rehn, esimio politico finnico ora Commissario Europeo per gli Affari Economici e Monetari – sì, quello del “Rehn’s Terror” di Paul Krugman, che sa anche essere spiritoso – sono anch’essi mortali comuni, non ambiscono a tanto e non possono che inchinarsi al dio del libero mercato. Di fronte a tanto squasso – nel 2009 la crisi finanziaria ha portato ad un crollo del pil in tutta Europa – i governi sono dovuti intervenire massicciamente per salvare banche sull’orlo del fallimento – per aver giocato all’alta finanza, perdendoci – e la Commissione europea si è inventata la “procedura speciale”. La Banca centrale europea ha poi disegnato lo strumento. Per salvare le banche è stato concesso un deficit fino al 30 per cento del pil ad un solo paese (come all’Irlanda), per poi, certo, vedere nel giro di due anni il suo debito pubblico raddoppiare. Con il beneplacito della signora Merkel i cui funzionari hanno tenuto d’occhio l’andamento dei mercati, perché l’economia tedesca export-driven non subisse troppi contraccolpi (e perché le sue banche, così esposte sui debiti sovrani, non avessero a soffrire troppo). Ci hanno guadagnato, poi, in rendimenti, comprando a prezzi stracciati (e rendimenti altissimi) e vendendo una volta che era passata la bufera.
Che la “crisi” abbia poi messo in ginocchio le economie di mezzo mondo (senz’altro di mezza Europa), tra i diktat della Troika e le dismissioni, le vendite, le de- e ri-localizzazioni, la pressione dei mercati e via dicendo, non ha poi contato più di tanto. La disoccupazione è un fenomeno ciclico, dicono (loro), quando l’economia si riprenderà quella tornerà a calare. Se il debito è aumentato per via dei movimenti sui debiti sovrani (vendo di qua e compro di là, variano i rendimenti) e per salvare le banche poco importa, il deficit di bilancio e i vincoli di Maastricht non si devono comunque toccare. Per rientrare dal debito si deve tagliare. Dove? Forse dove si è speso? No, si deve tagliare la spesa “improduttiva”, la spesa sociale, come se fosse quella la ragione dell’indebitamento crescente.
È stata forse concessa una procedura speciale per uscire dalla crisi con politiche espansive? No, perché quelle non lo meritano. Salvare le banche dal fallimento, sì, too big to fail (o forse, come ha detto qualcuno, too big to jail), aiutare le economie in crisi, no, non fa parte delle opzioni possibili. Quelle masse di milioni di disoccupati, precari, pensionati alla fame, quelle no, quelle non sono anch’esse il segno di un fallimento davvero too big.
È questa ipocrisia, questa sclerosi che va combattuta. Quale dovrebbe essere la ragione per cui l’economia dovrebbe uscire dalla crisi? È stata forse affrontata e risolta una sola delle ragioni che hanno portato alla crisi? E quale sarebbero le responsabilità della spesa sociale, della spesa per sanità, istruzione e protezione sociale, nell’avere portato ai livelli d’indebitamento attuali? Se il debito sovrano è oggi nelle mani degli “investitori” al punto che ne possono decretare d’un soffio il prospetto, non sarebbe forse più oculato mettere quel debito al riparo? Non sarebbe forse più saggio intervenire sul meccanismo diabolico del mercato che non si autoregola perché ivi vige la legge del gregge? Non c’è peggior ignorante di chi non vuol capire e di chi non capisce facendo finta di capire. Quanta ipocrisia, quanta sclerosi nel cuore della Vecchia Europa!