Tesi del pensiero neoliberista è che lo sviluppo economico richieda l’adozione di valori liberali. La Cina mostra che si tratta di una regola con qualche, importante, eccezione
Una tesi molto diffusa del pensiero neoliberista è quella che lo sviluppo economico di un qualsiasi paese richiede necessariamente l’adozione dei valori liberali e di sistemi politici e sociali conseguenti.
Lo sviluppo economico dell’economia di mercato in Cina negli ultimi trentacinque anni mostra che si tratta di una regola che permette per lo meno qualche importante eccezione.
Già nel Giappone dei Meiji, e in particolare tra le due guerre, si è assistito ad un grande processo di sviluppo economico in un quadro fortemente autoritario. Più recentemente, un altro esempio è costituito dallo stato di Singapore sotto il governo di Lee Kuan Yew, anche se in questo caso ci troviamo di fronte ad una area territoriale molto piccola.
Qualcuno ha anche individuato una possibile analogia tra lo sviluppo cinese di oggi e quello del Brasile degli anni sessanta: si riscontrano in ambedue i casi una forte crescita, un rilevante aumento delle disuguaglianze, una diminuzione dei livelli della povertà, nell’ambito di un comune quadro politico autoritario.
Il confronto con l’India, l’altra grande potenza asiatica che si sta sviluppando con un regime politico questa volta democratico, mostra che il modello autoritario cinese può rivelarsi anche più efficace per quanto riguarda i ritmi annuali delle crescita.
Si può forse così essere d’accordo in generale con A. Sen quando egli mostra nei suoi scritti come probabilmente non ci sia una relazione troppo chiara tra sviluppo economico e democrazia.
Da questo punto di vista, si possono mettere in dubbio sia le opinioni di chi suggerisce che uno stato autoritario faciliti i processi di sviluppo, sia di chi, al contrario, pensa che sia la democrazia a renderli più rapidi. Nel primo caso, secondo l’ipotesi prospettata, per la ragione che un regime dittatoriale non avrebbe bisogno di “perdere tempo” nel portare avanti riforme impopolari o, ad esempio, sarebbe meglio in grado di pagare tassi di interesse bassi per utilizzare le risorse necessarie a costruire le infrastrutture; nel secondo, perché il sistema democratico e il governo della legge sarebbero più adatti a favorire lo sviluppo di imprese globalmente competitive.
Se, comunque, la Cina non è diventata una democrazia ed ha continuato a svilupparsi, l’India ha smentito le profezie dei molti che pensavano che essa non sarebbe riuscita a mantenere un regime democratico, per il fatto che questo sarebbe stato impossibile in un paese che aveva un livello di povertà e di analfabetismo così forte, in presenza poi di tante lingue, culture, etnie, religioni, caste diverse.
Piuttosto, sembra che l’economia di mercato abbia bisogno, per crescere, di un certo ambiente giuridico consolidato, per quanto riguarda almeno i rapporti economici – diritto delle obbligazioni, dei contratti, delle imprese-, area nella quale la legislazione cinese, praticamente inesistente durante il periodo maoista, è fortemente cambiata a partire dagli anni ottanta. Sembra ancora che sia necessaria, più in generale, una certa “affidabilità” delle strutture burocratiche pubbliche, cosa che in Cina è assicurata in vari modi, non esclusa peraltro la corruzione.
Può restare, comunque, il dubbio che istituzioni democratico – liberali siano necessarie a partire almeno da un certo livello di sviluppo economico, ipotesi che potrà essere verificata soltanto in un futuro più o meno prossimo.
Si potrebbe, d’altro canto, anche ricordare, rovesciando in un certo senso le argomentazioni neoliberiste, la crescente contraddizione che tende a manifestarsi oggi nei paesi sviluppati tra un’egemonia sulla società molto forte da parte dell’economia di mercato in una sua fase avanzata e il funzionamento della democrazia rappresentativa.
I sintomi del male sono presenti dappertutto. Così, Negli Stati Uniti, tra l’altro, dobbiamo registrare la presenza del Patriot Act, ormai vecchio di diversi anni, nonché la crisi del subprime, che ha messo in evidenza il predominio dei mercati finanziari sulla vita democratica del paese, oggi infine ancora gli scandali dello spionaggio elettronico; in Europa, intanto, la crisi dell’euro ha mostrato chiaramente come i mercati e la burocrazia di Bruxelles minino alla base anche i più importanti principi democratici.
Ricordiamo poi, di recente, come la JPMorgan, fiutando lo spirito del tempo (Spinelli, 2013), in un suo rapporto del 28 maggio di quest’anno richiami all’ordine le democrazie del Sud Europa, appesantite per la banca dai diritti sociali e da quelli civili, dalle tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori, dal diritto di protestare se vengono proposte sgradire modifiche allo status quo. “Abbiamo visto esecutivi limitati nella loro azione dalla costituzione”, afferma ad un certo punto il rapporto della banca.
A questo punto ci sembra che il modello di regime verso cui tendono i paesi occidentali e la Cina possa anche nei prossimi anni miracolosamente convergere.
Verso la democrazia in Cina?
Non si può dire peraltro che negli ultimi venticinque anni non sia successo niente sul fronte dei livelli di apertura politica del regime cinese; in effetti, come ha scritto a suo tempo Etienne (Etienne, 2007): “… la Cina è passata da uno stato totalitario ad un sistema autoritario, che… continua ad ammorbidirsi senza escludere i ritorni del bastone…”.
Sono state sviluppate in misura rilevante, negli ultimi decenni, le libertà della persona piuttosto che quelle direttamente politiche. Ad esempio, ciò si è verificato per l’ottenimento dei permessi di residenza, la mobilità all’estero, i diritti di proprietà, lo scioglimento del controllo dell’unità di lavoro, o i rapporti sessuali. Sono cresciuti negli ultimi anni dei meccanismi di protesta, in forma largamente tollerata. Parallelamente e più in generale, si è assistito ad una moltiplicazione di organizzazioni non governative, segnali in qualche modo di una democratizzazione strisciante.
Va citato, a livello direttamente politico, anche il sistema delle votazioni a livello di villaggio, che è stato rinforzato da una legge del 1998 e che prevede che per l’elezione del capo e del comitato di villaggio si svolgano elezioni ogni tre anni e che il voto sia segreto, con un numero di candidati superiore al numero delle persone da eleggere. Sono noti, comunque, dei casi di elezioni locali “selvagge” e l’organizzazione per alcune volte delle elezioni per l’assemblea popolare di Pechino, in cui sono stati scelti anche dei candidati indipendenti. Infine, ogni tanto, nelle dichiarazioni del gruppo dirigente del paese, si manifestano aperture verso la democrazia, sia pure per un futuro non precisato.
Bisogna poi anche ricordare che in Cina ormai siamo in presenza di organi di informazione che appaiono molto più liberi di prima e che possono scrivere quasi di tutto; restano vietate le critiche al governo centrale e al partito comunista. Si è parlato di recente anche della possibilità concreta di organizzare elezioni libere dei rappresentanti sindacali presso la grande impresa Foxconn, mentre comunque la legislazione del lavoro è stata ammorbidita qualche anno fa.
Per alcuni, il caso cinese potrebbe comunque seguire, sul fronte politico, il modello di Singapore ed ancora di più forse quello di Taiwan.
In questo ultimo caso ci trovavamo in effetti di fronte ad un partito unico disciplinato e totalitario, il Kuomingtang, che ha governato nel tempo una trasformazione capitalistica, con gli organi del partito che avevano un ruolo molto importante nella gestione dell’economia e delle stesse imprese. Il paese possedeva anche un importante settore statale dell’economia. Invece di seguire una strategia diretta di privatizzazione di tale area, si è invece permesso al settore non statale di crescere e di diventare rapidamente un motore fondamentale dell’economia. Sono poi venuti prima i diritti civili e poi la democrazia.
Prevedere comunque quello che potrà succedere in tema di diritti democratici nei prossimi anni, in Cina come da noi, appare veramente un esercizio molto difficile. Forse c’è da temere più per l’Italia che per il paese asiatico.
Testi citati nell’articolo
-Etienne G., Chine-Inde. La grande competition, Dunod, Parigi, 2007
-Spinelli B., Il giudizio universale di JPMorgan, la Repubblica, 26 giugno 2013