La rotta d’Italia. L’uragano Sandy potrebbe cambiare la rotta d’Italia. Come gli Stati Uniti imparano a fare i conti con il cambiamento del clima e le sue conseguenze sulle città, l’economia, la politica
Quando il cambiamento climatico colpisce il centro del mondo le cose cambiano, di colpo diventano urgenti. O almeno dovrebbero. Non perché l’uragano Sandy negli Usa o l’onda su Fukushima siano state più terribili dello tsunami del 2004, ma perché luoghi simbolo dello sviluppo e della ricchezza si scoprono improvvisamente vulnerabili: il Giappone nucleare e persino il centro della finanza mondiale a New York vanno a gambe all’aria per colpa del vento e dell’acqua. Per effetto di una nuova furia degli elementi causata dalle attività umane.
Usiamo l’esempio di New York e del New Jersey. Per settimane, interi quartieri della città dove è nata la crisi del 2007 sono stati senza corrente elettrica a causa della cattiva qualità della rete; le infrastrutture fognarie mediocri hanno regalato ai cittadini delle periferie acque altamente inquinate che hanno contaminato i suoli e creato rischi per la salute. Per settimane – per mesi nel New Jersey dove più di 40 mila persone sono ancora senza casa – la FEMA, la protezione civile Usa, pompieri, volontari di Occupy Wall street hanno lavorato senza sosta, con costi enormi. Il valore delle case in intere zone di New York e sulla costa vacanziera dal New Jersey è crollato. E i costi delle assicurazioni sono cresciuti. Ovvero, migliaia di persone, anche quelle non colpite direttamente, si sono trovate con i propri beni che hanno perso valore. I collegamenti tra New Jersey e Manhattan non sono ancora tornati alla normalità, rendendo dura la vita per centinaia di migliaia di persone che vanno e vengono ogni giorno – a Jersey City ci sono le sedi di GoldmanSachs, Chase e Deutsche Bank, c’è traffico anche in uscita da Manhattan. Il sistema di metropolitane di New York sta spendendo quasi 5 miliardi per le riparazioni post-Sandy.
Nel complesso, la città che si considera l’ombelico del mondo – e che per molti aspetti lo è ancora – si è scoperta vulnerabile, l’economia è stata colpita e la spesa pubblica è cresciuta. Che fare? Costruire dighe, che sposterebbero altrove il danno, magari a Staten Island, meno importante punta sud di Manhattan? Se ne parla da mesi, si studia una nuova organizzazione della protezione civile locale, si raccolgono dati sui residenti, gli esperti avanzano proposte. Il governatore democratico Cuomo propone di spendere 40 milioni di dollari per comprare qualche migliaio di case in una zona costiera (a prezzo intero di mercato pre-Sandy) per abbatterle e fare di quell’area una zona umida cuscinetto.
Sandy, insomma, ha ricordato agli americani quanto siano importanti la manutenzione e il sistema infrastrutturale. “In giro per il Paese 70 mila ponti hanno problemi di struttura, uno di questi, in New Jersey è crollato sotto il peso di un treno la scorsa settimana, facendo finire un vagone di materiale infiammabile in un burrone. Ci sono 4 mila dighe che hanno bisogno di riparazionie, la nostra rete elettrica è la 32esima del mondo in termini di affidabilità” scriveva il New York Times in un editoriale non firmato (quindi espressione della linea del giornale) l’8 dicembre 2012, in cui si chiedeva al Congresso di approvare un pacchetto di fondi per spese infrastrutturali chiesto da Obama.
Ad oggi, anche in America, il dibattito sulle spese infrastrutturali è fondamentalmente legato alla contingenza, al ciclo economico. Spendiamo e creiamo occupazione fino a quando la macchina non tornerà a correre. È un argomento forte: senza soldi pubblici la disoccupazione e la crescita Usa non avrebbero galleggiato negli anni peggiori. I dati sulla disoccupazione dicono da mesi che la staticità del mercato del lavoro è il frutto dei tagli di spesa degli Stati che hanno licenziato insegnanti, infermieri, vigili del fuoco, assistenti sociali. Se l’occupazione pubblica fosse rimasta ferma, la dinamica del mercato del lavoro privato sarebbe bastata a far scendere il numero di disoccupati.
Il tema importante è però un altro. Il tema è Sandy. A New York una rete elettrica che funzioni, dei cavi interrati e isolati, servono perché è probabile che i fenomeni naturali estremi aumentino. All’America (e al Giappone di Fukushima) servirebbero grandi piani di politiche energetiche, di risparmio e di produzione. Perché il clima cambia e la società degli umani deve cercare di arrestare questo cambiamento. E perché nel frattempo deve adattare le proprie città, abitudini, servizi di emergenza. Si tratta di una missione enorme e costosa. Un cambio di paradigma non dettato dalla volontà ideologica, ma dalla realtà: se si vuole vivere dove non c’è acqua si scavano pozzi, se si vuole coltivare si irriga. Per noi è più difficile, ma la logica è la stessa. E quando si tratta di operare un cambio di paradigma epocale servono le istituzioni e la politica. Fatta salva l’Inghilterra del ‘700, questo è quanto è successo in Germania, in Italia e in Francia durante la rivoluzione industriale. C’erano le acciaierie e c’era la spesa pubblica – e, in Italia, persino l’unico anno di pareggio di bilancio negli anni di Giolitti, con interventismo pubblico e nascita del primo welfare. Persino l’“America degli individui” è collegata da una rete di autostrade voluta dal presidente Eisenhower.
Siamo in una fase storica simile. Servono politiche infrastrutturali ed energetiche nuove e diverse non perché siano più giuste, eque o di sinistra, ma perché anche i cattivi più cattivi – i banchieri di Wall street – finiscono sott’acqua come i pescatori dello Sri Lanka. È un discorso che riguarda anche l’Europa e le elezioni politiche italiane, dove i temi sembrano essere l’austerità di Monti, l’Imu e la sua restituzione. Cose che non creano lavoro e non ci riparano dalle conseguenze di un mondo che cambia. Vale per le scuole da mettere in sicurezza, vale per l’Aquila, per il Po, per Messina e per mille altre realtà di un territorio complicato, su cui il cambiamento del clima avrà conseguenze prima che altrove. A New York un po’ sembrano essersene resi conto. Molto meno nel dibattito elettorale italiano, che ignora quanto urgenti siano queste questioni. E quanto siano più importanti del pareggio di bilancio, nel medio e nel breve termine.
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