La rotta d’Italia. Fmi, Ocse e Ue hanno mandato piccoli segnali di cambiamento nell’orientamento delle loro politiche. Che cosa sta succedendo nei bastioni dell’ortodossia neoliberista?
Partiamo da Davos, in Svizzera, dove si è svolta da poco, l’ultima edizione del meeting annuale dell’élite economica. Si è trattato della solita minestra riscaldata e i banali commenti che di solito vi si possono ascoltare fanno poco sperare sui destini del mondo. Sul fronte finanziario, Jamie Dimon, il boss della JPMorgan Chase, sulla scena da molti anni, ha dichiarato, con arroganza, che i banchieri dovranno sopportare ancora per diversi anni di essere segnati a dito, di rappresentare dei capri espiatori di una situazione di cui non sono responsabili, di essere infine collocati al centro di un’operazione di disinformazione per il loro presunto ruolo nella crisi finanziaria. Dimon ne ha anche approfittato per mostrare il disprezzo da lui nutrito per quelli che pensano di aver migliorato il sistema, in particolare per gli estensori negli Stati Uniti del Dodd-Frank Act. Alex Weber, presidente dell’UBS, ha rincarato la dose, criticando le nuove regole di Basilea sulla capitalizzazione e sulla liquidità delle banche (Fournier, 2013).
Christine Lagarde a Davos
Per il resto, il forum avrebbe sostanzialmente ignorato la questione, forse considerandola irrilevante, se non fosse stato per un intervento di Christine Lagarde, attuale direttore generale del Fondo Monetario, che ha avuto parole dure per il settore finanziario. Citiamo qualche brano dal suo discorso (Lagarde, 2013): “…come sappiamo la crisi economica globale… ha per la gran parte avuto origine nel settore finanziario. Esso ha nascosto troppe delle sue attività in angoli bui e fangosi e ha posto i suoi guadagni di breve termine al di sopra del sostegno all’economia reale. … Completare il lavoro della riforma del settore finanziario deve essere una priorità. Rileviamo già troppi segni di una caduta dell’impegno in tale direzione…”. Nella sostanza, l’assemblea ha fatto finta di non capire ed è passata subito all’argomento successivo.
Avevamo assistito lo scorso anno a un primo mutamento di toni e di contenuti nel discorso del Fondo monetario. La prima novità che aveva sorpreso era un rapporto dell’organizzazione il quale, rovesciando almeno in parte un pilastro della sua ideologia ultraliberista, ammetteva che in alcuni casi gli stati potessero limitare i movimenti internazionali dei capitali in entrata. Avevamo pensato allora che tale presa di posizione fosse collegabile alla presenza alla direzione del Fondo di Dominique Strauss-Khan, che era stato un membro autorevole del Partito socialista francese. Ma qualche settimana fa, sotto il governo della Lagarde, designata a suo tempo alla poltrona da Sarkozy e sua fedele collaboratrice, era già arrivata una sostanziale critica alle politiche di austerità europee, con la sottolineatura, fatta in un rapporto del Fondo, che esse possono accelerare la depressione economica. Nel rapporto si calcolava, tra l’altro, che una riduzione di spesa di 1000 euro nel bilancio pubblico di un paese poteva provocare una corrispondente riduzione del Pil sino a 3000 euro. Un bel risultato.
Ora viene la presa di posizione al forum di Davos. C’è da chiedersi se non stia succedendo qualcosa, e se il Fondo non stia cambiando sul serio alcuni dei suoi indirizzi. Dove va a finire a questo punto il Washington consensus?
Una spiegazione di tale apparente mutamento di rotta potrebbe forse essere collegata all’ipotesi che la situazione del mondo occidentale sia più grave di come essa viene rappresentata ufficialmente e il Fondo, essendone consapevole, cerchi di sollecitare i governi e le imprese a cambiare registro.
L’Ocse e le tasse
Una impressione più o meno altrettanto positiva suscitano anche le prese di posizione recenti di un altro organismo tradizionalmente liberista, l’OCSE, in tema di fiscalità delle imprese multinazionali. Va ricordato che le imprese multinazionali tendono a pagare sempre meno tasse sui profitti annuali, in particolare giocando tra i regimi fiscali dei vari paesi, con particolare predilezione per i cosiddetti paradisi fiscali, ma anche sfruttando la gara ad attrarre gli investimenti esteri nella quale si sono esercitati negli ultimi decenni la gran parte dei paesi sviluppati.
Ora che gli stessi governi occidentali si trovano con gravi problemi di bilancio e cercano da tutte le parti le risorse per andare avanti, essi volgono lo sguardo alla questione. Nella ultime settimane l’attenzione si è concentrata in particolare su alcune grandi multinazionali statunitensi operanti nel settore tecnologico e si mette in rilievo che, ad esempio, Google paga nel 2011 appena il 4% di tasse sui profitti realizzati nel continente e che la Apple, a livello mondiale, è “costretta” nello stesso anno a sborsare appena qualcosa in più, 2,4 miliardi di imposte su dei profitti complessivi pari a 34,0 miliardi. Oppure si constata che in Gran Bretagna le prime 100 imprese quotate in borsa hanno avuto, nel 2012, un’incidenza di imposte pagate pari al 24,5% del totale dei profitti, contro il 35,8% del 2009 (Sandbu, Houlder, 2013), appena tre anni prima.
Ecco dove interviene l’OCSE, che è partita all’attacco sul fenomeno dell’elusione fiscale e che dovrebbe presentare le sue prime proposte per metterlo sotto controllo al G-20 del 14-15 febbraio a Mosca. Inoltre, la stessa Ocse dovrebbe mettere a punto le regole definitive entro diciotto mesi. Ricordiamo che peraltro già Kennedy, nell’aprile del 1961, in un messaggio al Congresso, aveva lanciato un’offensiva contro l’uso ingiustificato dei rifugi fiscali per ridurre le tasse, tendenza che, secondo lui, avrebbe potuto compromettere il futuro degli Stati Uniti.
L’Unione Europea, la Tobin tax e le agenzie di rating
Anche l’Unione Europea cerca di fare qualcosa, si pure con esiti contrastanti. Questa volta si tratta di una migliore regolazione dei derivati da una parte, di un più incisivo intervento verso le agenzie di rating dall’altra.
Il 22 gennaio 2013 il Consiglio Ecofin dell’Unione Europea ha avviato la procedura di cooperazione rafforzata che introdurrà, sia pure con molte limitazioni, la tassa sulle transazioni finanziarie in undici paesi europei, compresa l’Italia. Il gettito di tale tassa dovrebbe aggirarsi, secondo qualche stima, in 37 miliardi di euro all’anno. Fra qualche tempo così la Commissione Europea potrà avanzare una proposta dettagliata in merito. Il giudizio può essere moderatamente positivo per tale decisione, mentre la possibile applicazione della tassa in Italia da parte del governo Monti presenta peraltro diverse limitazioni e problemi (Baranes, 2013).
Bisogna poi ricordare che il parlamento europeo ha approvato le norme “per ridurre l’eccessivo affidamento ai rating su debito sovrano e operatori finanziari”, in quella che almeno una parte della stampa definisce come un giro di vite sulle agenzie di rating. Ma, peraltro, persino un commentatore di solito molto cauto come Emilio Barucci (Barucci, 2013) definisce la riforma come molto poco incisiva, con molte lacune e limitazioni.
Qualche notizia cattiva
Per evitare troppi entusiasmi per queste possibili svolte, aggiungiamo qualche notizia recente meno buona. La prima è che i paesi dell’Unione Europea e gli Stati Uniti si sono messi d’accordo per annacquare e posporre come data di introduzione le nuove regole di Basilea3 per quanto riguarda la base di capitale e il livello di liquidità delle banche, regole comunque che già sembravano inadeguate.
La seconda fa riferimento alla nomina del nuovo ministro del Tesoro degli Stati Uniti, dopo le dimissioni di Tim Geithner. Si tratta, come è noto, di Jack Lew. Meno noto è il suo curriculum per così dire “professionale”, di grande amico delle banche e dei mercati finanziari. Chi lo volesse può ricostruire la sua appassionante biografia leggendo un testo pubblicato di recente (Scheer, 2013).
La terza, infine, mette l’accento sui cattivi progressi del progetto di unione bancaria. I primi passi dello stesso non sono stati molto brillanti e ne abbiamo già riferito in un precedente articolo su questo stesso sito. Ma ora apprendiamo che è ormai pronta presso la Commissione Europea una bozza di direttiva in tema di salvataggio delle banche; essa prevede che i costi dei fallimenti delle banche verranno sostanzialmente scaricati sui bilanci pubblici, salvaguardando azionisti e creditori (Sinn, Hau, 2013).
Alla fine, così, considerando nel quadro anche queste tre notizie, gli entusiasmi si smorzano e quello della finanza appare un gioco che, quando va bene, è a somma zero. È questo il quadro di riferimento in cui si troverà a operare il governo italiano che uscirà dalle elezioni. A uno sguardo più ravvicinato sulla situazione del sistema finanziario nazionale sarà dedicato un prossimo articolo.
Testi citati
Baranes A., Scandali e derivati. È l’ora della Tobin, www.sbilanciamoci.info, 23 gennaio 2013
Barucci E., Riforma delle agenzie di rating: un’occasione persa, www.nelmerito.com, 25 gennaio 2013
Fournier A., A Davos, une finance intouchable, www.lemonde.fr, 24 gennaio 2013
Lagarde Ch., A new global economy for a new generation, www.imf.org/external/np/speeches/2013/012313.htm, 23 gennaio 2013
Sandbu M., Houlder V., Companies pay less tax on global profits, www.ft.com, 14 gennaio 2013
Scheer R., The inconvenient truth about Jack Lew, www.thenation.com, 11 gennaio 2013
Sinn H-W., Hau H., Eurozone banking union is deeply flawed, www.ft.com, 28 gennaio 2013