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Cipro, il paradiso fiscale perduto

Refresh. La nuova crisi dell’eurozona è a Cipro. 12 mld di euro salveranno le banche che speculano sul debito greco e gli investimenti in Russia. È l’occasione per cambiare le regole sui paradisi fiscali in Europa

La crisi finanziaria di Cipro – un paese dell’area euro – è un fatto noto a tutti, ma di cui nessuno parla. E che Cipro abbia avuto nei sei mesi che si chiudono a dicembre la presidenza di turno dell’Unione Europea è rimasto praticamente segreto. Nel giugno scorso, a pochi giorni dal passaggio del testimone presidenziale, il primo ministro cipriota Demetris Christofias avanzava ufficialmente una richiesta d’aiuto all’Unione Europea per far fronte alla disastrosa situazione in cui tuttora versa il sistema bancario dell’isola. Un accordo non è ancora stato raggiunto ma, secondo indiscrezioni confermate dalla stampa specializzata, l’entità del bail-out richiesto è da capogiro. Si parla di almeno 12 miliardi di euro, circa due terzi del prodotto interno lordo dell’isola. Di questa cifra, un terzo servirebbe a coprire l’esposizione delle banche cipriote al debito ellenico, mentre i rimanenti otto miliardi servirebbero a ricapitalizzare il sistema finanziario cipriota che – come forse non tutti sanno – è ben noto nella comunità internazionale di tributaristi e consulenti finanziari come paradiso fiscale tra i migliori della zona euro.

Oltre a un trattamento fiscale di favore, Cipro offre totale segretezza per le società, così da renderne i proprietari irrintracciabili. E’ possibile, quindi, che un cittadino UE, o un’impresa con sede in Italia o Germania, apra una società a Cipro e attraverso pratiche assolutamente legali e in linea con «le più ferree» direttive UE vi trasferisca assets e profitti così da essere tassati a un valore simbolico, rimanendo anonimi, e – soprattutto – dentro alla UE, dove, a differenza di altri sateterelli caraibici, la protezione della proprietà privata è assicurata da inattaccabili accordi comunitari e internazionali. Con le tasse sul reddito d’impresa al 10%, le più basse nell’Unione Europea, facili possibilità di elusione su capital gains (plusvalenze) e zero tasse su dividendi, eredità e donazioni, è facile intuire come sia possibile che la ricchezza finanziaria ‘made in Cipro’ posseduta da non-residenti sia triplicata nel giro di pochissimi anni e sia arrivata a valere più di 100 miliardi di euro nel 2009, ben sei volte il prodotto interno lordo.

Tutto questo mentre i parametri di riferimento per accedere alla zona euro – inflazione, deficit e tasso di cambio – oscillavano solo moderatamente, col debito pubblico addirittura in discesa di 20 punti. E tanto è bastato alla Banca Centrale Europea per aprire le porte a Cipro il primo gennaio 2008, senza stare troppo a guardare al deficit delle partite correnti, pari a 15 punti di PIL, allo spettacolare indebitamento del settore privato (che, solo per le imprese, nel 2008 ammontava al 160% del PIL) e alla bolla immobiliare ormai del tutto evidente e destinata a sgonfiarsi di lì a poco. Né si è dato peso all’opacità del sistema di governance finanziaria o al fatto che, curiosamente, Cipro fosse diventato il più grande investitore estero in Russia. Con un’economia cento volte inferiore a quella tedesca, Cipro investiva in Russia tre volte di più della Germania, paese tra i maggiori investitori esteri in Russia. Ovviamente, non si trattava di veri investimenti diretti esteri, ma di un fenomeno ben noto agli esperti del settore con il nome di ‘round-tripping’.

I grandi fondi d’investimento e ‘capitani d’industria’ ciprioti altro non sono che società cuscinetto di proprietà russa (seppur segreta e registrata a Cipro), pronte a raccogliere capitali in uscita da Mosca, eludere tasse di vario genere a Nicosia, e poi ritornare a investire in Russia, o nelle borse di Londra, Francoforte o Lussemburgo, così da poter riciclare capitali di possibile provenienza sospetta e, al tempo stesso, minimizzare il pagamento di imposte attraverso sapienti pratiche di transfer pricing e occultazione della base imponibile (http://taxjustice.blogspot.ch/2012/09/criminal-cyprus-offshore-business.html). La pratica è talmente nota, che persino il governo indiano se ne è recentemente lamentato, puntando il dito contro le Maldive e Cipro (http://www.financialexpress.com/news/roundtripped-fdi-from-tax-havens-under-oecd-review/446183). Il tutto – ed è la cosa veramente sorprendente – in maniera assolutamente legale e in un Paese nel cuore dell’UE e della zona euro.

Cosa fare è molto semplice e lo abbiamo già suggerito in un articolo su Sbilanciamoci.info http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/capitali/Ricetta-n.-1-tassare-rendite-e-profitti-14099. In un’Unione monetaria, non si può certamente guardare solo all’andamento dei prezzi al consumo e al deficit pubblico e dire che tutto va bene. Il caso di Cipro, dopo quelli di Spagna e Irlanda, passerà nei libri di storia per aver mostrato l’evidente inadeguatezza dei criteri di Maastricht nel definire il perimetro dell’Unione monetaria. La necessità di istituire una vera e propria supervisione bancaria e, conseguentemente, una maggiore armonizzazione in materia fiscale, iniziando dal capitale, non è più procrastinabile. Diversamente, in virtù della perfetta mobilità del capitale vigente all’interno della UE, sarà sempre e comunque il cittadino europeo a pagare per gli eccessi di hubris e le scommesse andate male della grande finanza. In un’Unione monetaria, il capitale è sempre in grado di spostarsi da un sistema bancario ritenuto più fragile ad uno ritenuto più solido, e questo anche se buona parte della responsabilità per l’indebolimento del sistema finanziario ricade sul capitale stesso, e su quelle lacune e scorciatoie di governance finanziaria che l’hanno attirato (e ben remunerato) quando le cose andavano bene.

La questione, poi, è rilevante anche dal punto di vista della sostenibilità delle finanze pubbliche, un tema che dovrebbe essere molto caro ai ministri delle finanze della zona euro. Si tratta, essenzialmente, di arrestare la continua erosione della base imponibile europea e limitare le politiche che scaricano i costi sui paesi vicini, attraverso un’armonizzazione progressiva della tassazione del capitale. L’economista francese Thomas Piketty aveva già denunciato gli effetti nefasti del ‘fiscal dumping’ su scala europea dalle pagine di Liberation (http://www.liberation.fr/economie/0101561892-le-desastre-irlandais), quando si discuteva del caso irlandese, noto per la tassazione del reddito d’impresa al 12.5%. Aggiungiamo noi che queste pratiche sono in chiara antitesi con lo spirito del mercato unico europeo. Quest’ultimo, difatti, giustamente proibisce aiuti di stato a singole imprese ma, paradossalmente, tace riguardo a riduzioni d’aliquota deliberatamente attuate per attrarre imprese da altri paesi (spesso interni alla UE) a più alto carico fiscale.

Certo, ci sono tante altre cose da riformare a Cipro. Va migliorata la qualità delle istituzioni e la trasparenza della politica. Le leggi sulla proprietà immobiliare sono ancora, incredibilmente, di derivazione ottomana e il sistema fiscale non potrà che essere ripensato dopo lo scoppio della bolla immobiliare e in vista della recente scoperta di enormi giacimenti di gas in acque cipriote. La bassa qualità del sistema di istruzione pubblico e quella dell’export rappresentano altre difficili sfide, ne sappiamo qualcosa anche noi in Italia. Ma i problemi del giorno a Cipro e nell’Unione Europea sono sistemici e finanziari, e a ben poco servirà abbassare i salari, tagliare le pensioni o sacrificare il servizio pubblico se, nemmeno di fronte a quel fallimento evidente che è stata la governance macroeconomica dell’area euro, niente verrà fatto sul fronte dell’armonizzazione della regolamentazione, tassazione e supervisione finanziaria. Sono queste le priorità per le politiche europee di fronte alla crisi di Cipro, anziché scaricare il peso dell’aggiustamento sui più deboli e su quelli che meno hanno beneficiato della moneta unica e del boom della finanza. Cipro è un buon posto dove iniziare a cambiare le regole.