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Le classi sociali esistono ancora? Domanda sempre attuale

Di quali classi possiamo parlare oggi? Come le definiamo? Quanto e come sono gruppi sociali, ceti, fasce di reddito e classi legati e interrelati? Quale corrispondenza possiamo trovare oggi tra l’appartenenza a una classe o gruppo e le preferenze politiche? Le domande alla base del saggio edito da Laterza.

«The class war is over», affermò Tony Blair nel 1999, perché «we are all middle class now», sì, siamo un’enorme classe media che include milioni di persone che si erano sempre viste come parte delle classi lavoratrici. Blair, naturalmente, si riferiva alla generalizzazione di stili di vita che fino ad allora erano stati riservati a fasce più ristrette di persone. Ma l’idea che fossimo divenuti – almeno nei paesi a capitalismo “maturo” – una «società senza classi», ovvero formata da un’unica, grande classe “media” era già entrata nel discorso politico se non nell’immaginario comune. Certo, la sola idea che la società potesse essere suddivisa in classi era considerata obsoleta – Margaret Thatcher riteneva il concetto di classe “comunista”, arrivando a rigettare l’idea alla radice: «Non esiste la società, ci sono solo gli individui» – ma era forse dovuta alla prospettiva, a come si guarda all’organizzazione sociale, alla sua articolazione in gruppi ed eventuali “strati”, alla stabilità e dinamicità delle relazioni sociali, all’importanza di lavori e professioni nel determinare il reddito, lo status e la collocazione sociale degli individui.

Da parecchio tempo, in ogni caso, il concetto di classe ha finito per essere abbandonato, tanto nel discorso politico quanto nella percezione comune, sostituito da termini più neutri come quelli di gruppi e fasce sociali, legati al reddito o alle professioni. Eppure, se anche le classi non sono più chiaramente delimitate e definite come un tempo, cionondimeno le divisioni sociali esistono e danno luogo a disuguaglianze e queste sono dovute al gruppo sociale di origine, ovvero alla professione, al ceto o al reddito, che a loro volta saranno in grado di determinare il nostro livello di istruzione e competenza e, anche, i canali giusti per «fare strada». In altre parole, se comunque esiste una responsabilità individuale per ciò che facciamo, non per questo il ruolo che ricopriamo e la nostra posizione in società non sono il risultato di fattori che in grande parte esulano dal nostro controllo. Perché questo è uno degli assunti di cui l’era neoliberista in cui ci siamo impantanati ci ha sempre voluto convincere: che tutto ciò che riusciamo ad ottenere nella vita sia il risultato delle nostre scelte, delle nostre aspirazioni e del nostro sforzo. Nasciamo tutti uguali, viviamo in un sistema che offre le stesse opportunità a tutti, impegniamoci senza lamentarci, senza dare la colpa al sistema! Tutto dipende dalla nostra performance, non conta di chi siamo figli o da dove veniamo ma solo il talento e l’impegno, ovvero il merito.  

Un tempo vi era corrispondenza tra la classe sociale e le condizioni di vita, legate al reddito: lussuose per la borghesia abbiente, dignitose per le classi medie, povere per le classi lavoratrici. Il reddito e il tenore di vita che ne conseguiva erano sostanzialmente legati alla classe sociale di origine. Le possibilità di passare da una classe all’altra erano ridotte e il conflitto sociale nasceva primariamente dalla domanda delle classi lavoratrici di migliori condizioni di vita e redditi più alti. Nel tempo, i redditi sono aumentati, anche se non per tutti allo stesso modo, la stratificazione sociale si è fatta più articolata, la mobilità sociale è migliorata. Le classi medie si sono allargate, il conflitto sociale è diminuito. Le classi medio-alte, però, hanno a quel punto preteso meno vincoli, per ottenere di più, perché le classi medie e popolari si stavano avvicinando. E i redditi alti hanno ripreso ad aumentare, le disuguaglianze si sono moltiplicate, non essendo più solo legate alla classe e al reddito, lungo altre dimensioni, fino al punto da far ritenere che la classe di origine non conti più. Quanto sono, oggi, le disuguaglianze osservate – misurate dal reddito, dai consumi, dallo stile di vita – legate alla classe sociale? Di quali classi possiamo parlare oggi? Come le definiamo? Quanto e come sono gruppi sociali, ceti, fasce di reddito e classi legati e interrelati? Quale corrispondenza possiamo trovare oggi tra l’appartenenza a una classe o gruppo e le preferenze politiche, ovvero sono i rappresentanti politici espressione di classi o ceti? Queste sono le domande a cui vorremmo rispondere, il perché di questo libro.

Paolo Sylos Labini, in un saggio uscito cinquant’anni fa, già provò a rispondere a queste domande, provocando un’accesa discussione con un libro che fece epoca (Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali, Laterza, 1974). In un sistema sociale organizzato in classi la stratificazione sociale nasce da divisioni tra gruppi che non sono tali di diritto – come le caste o le ascendenze feudali – ma di fatto. Se tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge (l’eguaglianza formale), non lo sono di fatto in ragione di differenze sociali che sono strutturate. Nel suo saggio e in altri suoi lavori tra gli anni Settanta e Ottanta, Sylos Labini riassunse un secolo di studi sociologici e politici riprendendo la classificazione fatta propria anche dal marxismo secondo cui la suddivisione in classi traeva origine dalla proprietà dei mezzi di produzione e di generazione del reddito, dal lavoro, ovvero dalla “professione” – e quindi, secondariamente, dal grado di istruzione e di qualificazione, fondamentale nel determinare l’accesso alla professione – e dal controllo politico e amministrativo del processo di accumulazione del capitale. Nella classificazione di Sylos Labini, le classi sociali erano rappresentate da: la borghesia, formata dai proprietari di grandi aziende e capitali fondiari e immobiliari, dagli imprenditori e alti dirigenti nonché dai liberi professionisti; la piccola borghesia autonoma, composta da coltivatori diretti, lavoratori in proprio, artigiani e commercianti; la piccola borghesia impiegatizia, costituita da impiegati pubblici e privati, tra cui insegnanti e addetti alla sanità; alcune categorie particolari della piccola borghesia, come i militari e i religiosi; la classe operaia: formata da braccianti e salariati fissi in agricoltura, dagli operai dell’industria e dell’edilizia e da quelli del terziario. A questa classe poteva essere associato anche il cosiddetto sottoproletariato, composto da coloro che restano per lunghi periodi di tempo fuori dalla sfera di produzione in quanto disoccupati. Le classi, quindi, venivano definite nell’ambito della sfera della produzione (lavoro), più che da quella del reddito che, tuttavia, restava un elemento importante per la distinzione delle classi non solo per il suo livello ma per il modo in cui viene ottenuto (anche se, in ultima analisi, conglobato nella definizione delle classi, dato che tutto il reddito non generato dal lavoro è reddito da capitale).

Quella classificazione, codificata da Sylos Labini sulla scia di un’ampia mole di studi sociologici, è sostanzialmente rimasta la stessa, rivista e riadattata poi da studiosi come John Goldthorpe e altri, per restare poi, quasi immutata fino ai giorni nostri, adottata anche nello schema europeo corrente ESEC (European Socio-Economic Classification). Il fatto, però, è che tanto i sociologi che gli economisti che guardano a ciò che accade nella società hanno finito per ritenere superato l’oggetto stesso di quella classificazione, ovvero la struttura sociale, e l’attenzione si è spostata altrove. Sylos Labini era partito dall’interesse per il ruolo dei ceti medi nello sviluppo capitalistico e democratico, nel loro emergere come “terza” classe nel conflitto tra profitti e salari. Nel tempo, però, altre disuguaglianze sono emerse, in un quadro che ha visto l’espansione delle classi medie e l’avanzare del processo di “terziarizzazione”, e l’attenzione ha finito per focalizzarsi sulla distribuzione del reddito, sulle disparità di genere o “generazionali”, partendo dal presupposto che le divisioni di classe fossero state superate e che altri fossero i meccanismi in opera nelle disparità osservate. Ciononostante – ed è questo ciò che più ci ha spinto nel riprendere in mano oggi il contributo di Sylos Labini – le società capitalistiche avanzate restano segnate da divari e disuguaglianze che paiono radicati, le cui origini non si spiegano se non, ancora, con l’appartenenza di classe, ovvero a gruppi sociali con caratteristiche specifiche, ancorché mutate, che le disparità oggetto di studio non fanno che mascherare. Le disuguaglianze nella distribuzione del reddito, ad esempio, di cui si è venuto discutendo negli ultimi anni, non sono soltanto dovute a differenze nel merito, nelle capacità individuali e finanche nelle opportunità di acquisire un’istruzione adeguata, né semplicemente a fallimenti dei mercati o la scarsa concorrenzialità. Al fondo, ci sono due altri elementi all’opera che sono, ancora una volta, il “conflitto” tra capitale e lavoro – o, più precisamente, tra redditi da capitale e redditi da lavoro – e l’ereditarietà, che consente la ripartizione del patrimonio per vie familiari, perpetuando le disparità di ricchezza. A chi già non ha è lasciata la via del “merito” in un sistema ove, però, le “enclosures” generate dall’appartenenza a club e circoli si sono fatte sempre più decisive. Il processo di democratizzazione aveva fatto sperare che il sistema capitalistico concorrenziale sarebbe stato in grado di favorire l’ampliamento della sfera delle opportunità al di là delle disparità “originarie”. Ma ciò era avvenuto perché le classi inferiori avevano spinto per ottenere più diritti e maggiori possibilità. Le élite – le classi superiori – avevano ceduto lasciando intendere che il sistema avrebbe concesso un’opportunità a tutti, bastava volerlo, senza però alterare né i meccanismi dell’accumulazione né quelli della distribuzione, anzi spingendo perché fosse data libertà al capitale di “operare per lo sviluppo”. Così, il capitalismo maturo della globalizzazione è stato capace di traghettarci in un mondo dove, alla fine, sono le antiche divisioni di classe, non solo di ceto, a fare la differenza. Il cerchio si è chiuso e oggi, giocoforza, dobbiamo tornare a parlare di classi perché è lì che hanno origine molte delle disparità che sono sotto gli occhi di tutti.

Questo non è un libro di storia delle classi sociali, ma una riflessione sulla struttura sociale italiana oggi e su come si è evoluta dal dopoguerra, sulla discussione attorno ad essa e anche su come i termini di quel dibattito sono cambiati nel corso del tempo. La riflessione, qui, sarà tanto teorica – senza essere accademica, richiamando i passi fondamentali di un dibattito che da Marx e Weber si è esteso fino ai giorni nostri – che applicata, riprendendo numeri e statistiche per dare una misura di quanto osservato. Proporre una sintesi quantitativa dei fenomeni sociali non è mai semplice, non tanto perché i numeri vanno cercati e ricostruiti, dalle fonti originarie adattati a ciò che si intende descrivere, quanto perché per potersi far comprendere da tutti, oltre gli specialismi, si deve far “parlare” i numeri per un’idea concreta di quanto sostenuto con l’elaborazione teorica. Il libro richiama molti dati, statistiche e cifre che vanno seguite con attenzione perché l’argomento appaia nella sua nettezza. Come già fece Sylos Labini, crediamo che ciò possa essere fatto senza nulla togliere alla leggibilità dei fatti. 

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Qual è la situazione odierna? Cosa ci dicono i dati? Nel capitolo settimo si offre una sintesi quantitativa riguardo alle classi sociali in Italia, ricostruendo la struttura di classe oggi come risulta dai dati disponibili (al 2023).  Ciò che emerge è che la classe operaia pesa ancora per un quarto (ma è divisa tra una componente “garantita” e una “precaria”), che la classe media è certamente maggioritaria, ove quella medio-bassa è più rilevante (e anch’essa divisa tra garantiti e precari), mentre quella medio-alta, insieme alla classe alta, pesa circa un quarto. La classe operaia esiste ancora, quindi, e «non siamo tutti classe media». La struttura di classe descritta, però, appare sostanzialmente ingessata, ormai inalterata dagli anni Novanta. Un paese fermo, pertanto, la cui economia non cresce più e la cui struttura sociale è cristallizzata. In termini di reddito, invece, la middle class appare essersi ridotta (e sono le fasce alte a guadagnarci di più). La mobilità tra le classi di reddito mostra anch’essa un certo ingessamento, con una prevalenza della mobilità discendente su quella ascendente. Tuttavia, la middle class appare essersi estesa a (quasi) tutte le classi sociali dal punto di vista degli stili di vita e dei consumi, delineando una frattura in aumento tra redditi alti e redditi bassi. 

La distribuzione del reddito mostra che non c’è (più) una corrispondenza univoca tra posizione lavorativa (classe sociale) e reddito, a causa di due fattori determinanti: il capitale accumulato (anche nella forma di beni immobili) e il livello di istruzione. Quest’ultimo, però, è divenuto nel tempo un motore di mobilità sociale molto meno potente di quello che era stato in passato, superato dall’appartenenza di classe. Tanto che oggi, se per salire di classe non basta più il passaporto educativo – il titolo di studio – allora ci si può rinunciare. Il livello di istruzione dipende dal reddito e dalle aspettative (e aspirazioni) e varia con la famiglia di origine e l’orientamento culturale familiare (ovvero dalla classe sociale). Più basso è il reddito, meno si spende (si investe) in istruzione e capitale umano. «Far studiare i figli costa, ma se poi questi non fanno neppure carriera, perché non hanno il padre con una certa posizione, allora non ne vale la pena».  Vi sono poi le altre dimensioni delle disuguaglianze, quali il genere, l’inattività e la provenienza, che vengono esplorate nel settimo capitolo, per comprendere quanto queste si intersechino con la dimensione di classe. I dati, come si vedrà, sono interessanti perché rivelano l’importanza della classe stessa. Il libro si conclude, nell’ottavo capitolo, con alcune considerazioni circa la rappresentanza politica delle classi, la loro rappresentazione nel discorso pubblico e l’evoluzione recente del quadro politico italiano in relazione alla struttura sociale descritta. Dato che le classi esistono ancora – e con esse i divari che le separano – chi rappresenta, oggi, le classi popolari? Si può fare qualcosa, almeno, per rimettere in moto l’ascensore sociale?

Ciò che questo libro intende mostrare è che nel corso del tempo non è solo variato il peso relativo delle classi ma anche il loro peso “politico”, nei canali della rappresentanza, con effetti redistributivi non indifferenti. Certo, venendo meno l’identità sociale associabile all’appartenenza ad uno specifico gruppo, nella frammentazione crescente del corpo sociale e nella differenziazione delle posizioni, la stessa valenza della classe è svanita. Ma non per questo le classi, oggi ridefinite nei “contenuti” e non più simili a quelle di un tempo, non esistono più. Ci sono, ma sono altra cosa, per quanto questi tanti e nuovi contenuti, di cui in molti discutono girandoci intorno, senza mai tornare al nocciolo del problema, ne confondano il tratto.

Scrivere un libro sulle classi sociali oggi può apparire demodé o retrò, per non dire “vetero-qualcosa”, perché sono altre le prospettive trendy nell’analisi sociale. Tra i critici vanno più di moda le analisi impressionistiche tipo «fine della classe media» o «società signorile di massa» o i filosofi-terapisti della crisi come Slavoj Žižek o Alain Badiou, che usano concetti aggreganti come valori, cultura, comunità. Il concetto di classe è passato inosservato persino in due delle pubblicazioni che negli ultimi anni sono state tra le più rilevanti nell’osservare le distorsioni dell’attuale sistema capitalistico, il Capitale di Thomas Piketty (2014) e Debito di David Graeber (2012). Eppure, esso è ancora ben presente nel vissuto, oltreché nella realtà delle relazioni sociali. E soggiace a molta della recente insoddisfazione verso un sistema che appare contraddittorio, tanto nello sfruttamento ecologico che nell’ineguale distribuzione della ricchezza, con il conseguente senso di frustrazione che genera il sentimento crescente che il capitalismo globale sia fondamentalmente iniquo, basato com’è sugli effetti socialmente dirompenti della tecnologia e della distruzione ambientale. E così tutti – da destra come da sinistra – puntano il dito contro diseguaglianze, differenze e gerarchie, all’insegna di nuovi concetti di inclusione/esclusione. Sia Piketty che Graeber, tuttavia, si possono leggere con gli occhi della “classe”: a cosa sono dovute quelle disuguaglianze se non, in definitiva, alle classi? 

Il libro si occupa di questo, illustrando come siamo passati da profezie come «la classe operaia non c’è più» alla «fine del ceto medio». Perché la classe resta comunque un’ideologia. La retorica sulle classi che non esistono più ha finito per celare il fatto che la classe dominante – borghese, alta o superiore che dir si voglia – ha di fatto vinto la lotta di classe, come già ricordava Gallino (2012): «La più grande vittoria della classe dominante, di certo, è aver fatto credere agli altri di non esistere più». E oggi ci sono ancora, come un tempo, dominanti e dominati. Come ha sostenuto Marco D’Eramo in suo lavoro recente, Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi, (2020), negli ultimi cinquant’anni si è assistito a una sorta di «rivoluzione al contrario, della quale quasi nessuno si è accorto»: quella lanciata dai dominanti contro i dominati. Una guerra che, almeno al momento, le élite stanno stravincendo. Perse nel mare magnum della middle class, le classi popolari si sono fatte dominare e la classe dominante ha trovato il modo di scavare un solco, riproponendo una nuova, durissima, separazione di classe. La working class esiste, eccome, ma non è più classe. L’ideologia della middle class ha vinto, sostituendo tutte le altre possibili contrapposizioni di classe, negandole, ma non per questo eliminandole.