Il caso dell’auto in Germania, quello dell’acciaio in Francia. Con la concertazione o con l’intervento del governo, politiche industriali per cercare nuovi mercati o per evitare la chiusura. Mentre noi…
In Italia la crisi dei nostri grandi gruppi, con alla testa in questo momento quelle della Fiat auto e della Riva-Ilva, sta diventando una presenza incombente nel panorama di fondo delle nostre cronache economiche e sociali; le due questioni rischiano di incancrenirsi sempre di più e di suscitare un sentimento di impotenza e di pessimismo in una parte almeno dell’opinione pubblica. Intanto però dalla Germania e dalla Francia arrivano in queste settimane delle notizie, che toccano rispettivamente i settori dell’auto e quello dell’acciaio, che ci fanno riflettere ancora una volta sulla distanza sempre più larga che si va configurando tra la situazione disperata del nostro paese e quella dei nostri grandi vicini. Vediamo meglio di cosa si tratta.
Il caso dell’auto
Cominciamo dalla Germania. Dal suo quartier generale di Wolfsburg il gruppo Volkswagen ha annunciato che nei prossimi tre anni esso investirà 50,2 miliardi di euro nel mondo, oltre a quanto previsto per la Cina, paese nel quale gli investimenti saranno pari ad altri 14 miliardi di euro in quattro anni. L’iniziativa del gruppo è concepita nel quadro di un aggressivo piano complessivo che mira a conquistare nei prossimi anni il primato mondiale delle vendite nel settore, primato che la casa tedesca dovrà cercare di strappare alla Toyota e alla General Motors, mentre anche la Hynday-Kia sta varando dei grandi progetti di spesa con ambizioni abbastanza simili a quelle del concorrente tedesco.
In termini più analitici gli stanziamenti sopra citati non sono soltanto mirati ad aumentare la capacità produttiva della casa tedesca e il numero dei nuovi modelli (ne sono comunque previsti circa 140 nei prossimi due anni, una cifra strabiliante), ma anche, se non soprattutto, a far fare un salto in avanti tecnologico agli impianti e parallelamente a portare alla riduzione dei consumi e dei livelli di inquinamento delle vetture, nonché dei costi di produzione delle stesse.
Il sindacato dei metalmeccanici e il consiglio di sorveglianza in cui sono rappresentati pariteticamente i lavoratori dell’azienda sono stati informati e coinvolti in anticipo sulla questione e hanno concordato e approvato poi senza riserve i progetti della casa, progetti che dovrebbero riuscire a salvaguardare e probabilmente ad aumentare l’occupazione negli impianti tedeschi. Intanto il governo applaude sorridente.
Da noi intanto nessuno sa (forse neanche Marchionne) se e quanto la Fiat investirà in Italia nei prossimi anni, ma certamente si tratterà, al massimo, di una cifra che rappresenterà soltanto una piccola frazione di quella della casa tedesca; non si configurano poi all’orizzonte se non molto vagamente nuovi modelli e progetti di innovazione di prodotto e di processo, l’ordine rivolto dall’amministratore delegato ai suoi dipendenti è solo quello di obbedire e tacere, mentre solo la magistratura, qua e là, riesce a far recedere l’azienda da qualcuno dei suoi insani propositi. Sul tutto aleggia la minaccia di una fuga dell’azienda dall’Italia, mentre le mosse della Volkwagen e della Hunday indicano che gli spazi di mercato dell’azienda di Torino continueranno drammaticamente a restringersi.
In tutto questo spicca il sostanziale silenzio-assenso del nostro governo tecnico.
E quello dell’acciaio
Per quanto riguarda invece la Francia il confronto con il nostro paese riguarda le vicende dell’acciaio. La crisi del settore appare molto grave a livello europeo e in queste settimane la Arcelor Mittal, la più grande impresa mondiale del settore e che parecchi anni fa aveva preso il controllo di diversi impianti nel paese, impianti che occupano attualmente circa 20.000 dipendenti, ha annunciato la sua volontà di chiudere due altoforni del sito di Florange in Lorena e di mandare a casa circa 630 dipendenti. E’ prevista inoltre la chiusura di un altro altoforno in Francia e di altri due in Belgio. L’azienda ha a suo tempo affermato la disponibilità a dare tempo al governo per cercare qualche altra impresa disponibile a subentrare nella gestione e comunque dichiarando la sua intenzione di mantenere la proprietà del resto dell’impianto, che impiega complessivamente 2.000 dipendenti.
Il governo, fatti i primi accertamenti ed avendo constatato l’impossibilità di vendere la sola parte dell’impianto che l’azienda vuole chiudere, ha chiesto alla Arcelor Mittal di accettare di cedere l’intero sito produttivo. Ma l’azienda non vuole sentirne parlare ed ecco che, a questo punto, il ministro dell’industria, Arnaud Montebourg, ha lanciato un forte attacco alla società, minacciando di nazionalizzare, almeno temporaneamente, tutte le sue attività nel paese. Ne sono seguite polemiche molto dure da ambedue le parti ed anche tentativi di trovare un accomodamento. La palla è ora nel campo dell’azienda.
Al momento della stesura di queste note noi non sappiamo come la storia andrà a finire, ma quello che possiamo rilevare è che la risposta dei pubblici poteri appare ben differente da quella del governo Monti nei confronti del gruppo Riva.
Il caso Ilva è aperto da molti anni, ma solo da pochi mesi esso è arrivato alla ribalta dell’opinione pubblica e solo grazie alla magistratura. Da allora il governo ha accettato in maniera complice tutte le decisioni dell’azienda, i suoi silenzi, le sue dilazioni, la complicità sostanziale dei vertici dell’impresa con lo sciopero di alcuni sindacati contro la magistratura, almeno come appare dalle cronache dei giornali. Soltanto ora, di fronte al precipitare drammatico della crisi, che esso stesso ha contribuito a provocare con i suoi silenzi e le sue dilazioni, si decide a convocare le parti e, mentre continua a criticare la magistratura, prepara un decreto confuso e inadeguato.
Conclusioni
In generale non possiamo che constatare come, da un lato, in Germania, di fronte ad una novità sostanziale, si metta in moto la catena del dialogo e della concertazione tra imprese e lavoratori, mentre dall’altro, in Francia, di fronte ad una crisi, si svegli subito la voce, anche dura, dello Stato interventista.
Si tratta di due modelli di paese certamente differenti, ma che presentano ambedue una loro coerenza ed una loro incivisità di obiettivi. Nel nostro caso nulla di tutto questo, solo una sostanziale complicità con i proprietari delle imprese, qualunque siano le loro decisioni e le loro follie .