È possibile chiedere conti pubblici in ordine e allo stesso tempo una politica pubblica di sviluppo? Sì, basta porre le due domande a due soggetti diversi. Bilanci nazionali austeri, bilancio federale espansivo: una piattaforma credibile per i progressisti europei
Dichiararsi d’accordo nel volere conti sani e chiedere un allentamento dei vincoli, come fanno i sindacati europei e molte forze di sinistra, è contraddittorio, a meno che gli interlocutori cui ci si rivolge siano diversi: conti sani per i singoli stati ma uso di un bilancio europeo rilevante per innovazione e sviluppo, con la possibilità per il bilancio federale di essere in disavanzo.
La posizione dei sindacati europei
La mobilitazione europea indetta dalla Conferenza Europea dei Sindacati (CES/ETUC) è stata di pura protesta, senza proposte capaci di portarli ad un tavolo di trattative con le istituzioni europee. Anzi, se si esamina con un minimo di attenzione la piattaforma (Declaration adopted by the ETUC Executive Committee at their meeting on 17 October 2012), ci si rende conto del fatto che, a parte la denuncia per la disoccupazione e i guasti sociali, non esistono differenze incisive, in termini di sostrato concettuale, tra la posizione dei sindacati e quella dei soggetti europei impegnati nel perseguimento ottuso e generico del pareggio di bilancio da parte degli stati membri (e basta) e del rientro dei debiti pregressi nel più breve tempo possibile (e basta).
In relazione alla giornata di mobilitazione i sindacati “esprimono la loro forte opposizione alle misure di austerità che stanno trascinando l’Europa nella stagnazione economica e allo smantellamento del modello sociale europeo; misure tutte che, lungi dal ristabilire fiducia, servono solo a peggiorare gli squilibri e a favorire l’ingiustizia”. Si tratta di una denuncia relativamente chiara (non si comprende a quali “squilibri” ci si riferisca), che potrebbe presupporre analisi dei fenomeni alternative a quelle “ufficiali”, simile a quelle dei molti economisti critici che Sbilanciamoci.info ha sempre ospitato o segnalato (governi ed eurocrati europei, per dirla con Fitoussi, “… hanno interiorizzato questo mantra dell’austerity … se [la politica economica] crea disoccupazione, vogliamo ammettere che è sbagliata?”).
Questa impressione sembra tuttavia essere smentita dal punto successivo: “Il comitato esecutivo, mentre sostiene l’obiettivo di conti sani, considera che la recessione può essere fermata solo se i vincoli di bilancio vengono allentati e gli squilibri eliminati, nella prospettiva di raggiungere una crescita economica sostenibile e la coesione sociale, nel rispetto dei valori consacrati nella Carta dei Diritti Fondamentali”. Il problema sta nel sostegno dell’obiettivo dei conti sani, per due distinti motivi. Il primo sta nell’ambiguità del l’aggettivo “sano”, il secondo e molto più importante sta nel termine “obiettivo”. (Ho scelto di riferirmi ai sindacati, ma comunque una buona parte delle forze politiche progressiste condivide le stesse equivoche posizioni).
I “conti sani”
La maggior parte dei paesi europei ha convenuto di intendere “i conti sani” come un obbligo di pareggio del bilancio pubblico, tanto che molti di essi, sotto pressione della Germania e degli eurocrati, hanno costituzionalizzato in qualche modo il pareggio di bilancio. Tale prescrizione è stata sempre riferita ai singoli paesi. La CES è contraddittoria se vuole, da parte dei paesi, conti sani e allentamento dei vincoli. Non lo sarebbe, invece, ove chiedesse di associare politiche espansive, gestite a livello di un bilancio federale in espansione, ai conti sani da parte dei paesi.
Il secondo motivo è dirimente. Lo stato di un bilancio pubblico, che rappresenta nulla più che i soldi implicati da azioni pubbliche, non può essere un “obbiettivo”, ma solo uno strumento per raggiungere obbiettivi. La disoccupazione, lo sviluppo, l’innovatività possono essere obbiettivi, non il pareggio del bilancio pubblico, che in sé non ha significato, come ho qui argomentato di recente. “Sani”, in uno stato sovrano, possono quindi essere gli effetti di azioni pubbliche, non i conti di per sé. I soldi e i conti sani, valgono invece per soggetti subalterni, come le famiglie, le imprese, gli enti locali, gli stati non (non più) sovrani.
Porre attenzione al bilancio europeo
Come semplice idea guida si pensi ad una Europa federale, simile agli Usa. È quasi ovvio che in una realtà di tal genere possano esistere vincoli di bilancio per gli stati confederati, ma non per il bilancio federale. Al contempo il riferimento agli Usa implica una complessiva governance europea in cui il ruolo della banca federale sia quello di regolare la creazione di moneta nonché di fungere da garante di ultima istanza per il bilancio federale, senza particolari vincoli a priori in merito a come finanziare eventuali deficit. Il discorso, in un tale caso, sarebbe netto: usare il bilancio federale, se necessario tramite deficit monetizzato dalla BCE e con esso concordato, per promuovere (A) occupazione e aumento del PIL nel breve periodo, nonché, in un più lungo periodo, (B) sviluppo e innovazione e (C) riequilibrio complessivo tra stati confederali ove necessario e opportuno. Questo ricondurrebbe la situazione europea alla normalità, spazzando quella parte della speculazione che fa leva su possibili default degli stati membri e che genera i deprecati spreads.
L’evidenza e la consapevolezza che le attuali politiche sono contraddittorie, perché i sacrifici e la disoccupazione da esse indotti hanno effetti depressivi sul Pil tali da provocare un peggioramento del rapporto debito/Pil, stanno emergendo ormai anche in ambienti ortodosssi (Fmi e Blanchard). Ciò dovrebbe facilitare l’apertura di una trattativa con sindacati e governi di centro sinistra, ma alla sola condizione che questi capiscano che l’unico terreno di trattativa ruota intorno al tema del bilancio federale.
Al momento non lo hanno compreso e questo spiega come i negoziati sul Quadro Finanziario Pluriennale 2014-2020 non vadano nella direzione giusta, sia per dimensioni (1% del Pil europeo), sia perché il bilancio è concepito come strettamente basato sui contributi nazionali, sia perché si ripete il rituale di sette anni fa e un cambiamento radicale di prospettive non ha neanche sfiorato la trattativa, che ha per oggetto come centellinare pochi euro tra pochi paesi e poche destinazioni.
Si avvicina allora il momento in cui sindacati e governi progressisti dovrebbero irrompere nel gioco europeo a gamba tesa. Ma per trovare la forza di far ciò occorre che essi abbandonino i loro contorcimenti ideologici e superino le loro stesse contraddizioni culturali (molti documenti di studio della CES sembrano essere molto più avanti dei suoi documenti politici).
Mentre scrivevo questo articolo è apparso un articolo di Alberto Majocchi che nitidamente propone un aumento dimensionale del bilancio, alimentato da una carbon tax che, se dimensionata come voluto dalla Commissione europea, darebbe 50 miliardi di euro, e destinato a finanziare solo investimenti e “beni pubblici europei”. Io aggiungerei l’opportunità di usare il gettito di una Tobin tax europea e la necessità che, almeno nei primi anni, possa esservi un ampio ricorso a deficit finanziati in accordo con la Bce in deroga al divieto di sottoscrizione diretta dei titoli dal parte della stessa Bce. In ogni caso esiste il problema del Regno Unito, che mette i bastoni tra le ruote pur fuori dall’area Euro.
In pratica sto proponendo una misura che elimini l’attuale, grottesco meccanismo che conduce la Bce a creare moneta facendo sottoscrivere le emissioni di titoli del debito alle banche; un meccanismo che ha diseducato le banche a finanziare gli investimenti produttivi e che, contemporaneamente, le ha rese esposte a rischi di default per il solo fatto di essersi “prestate” (lucrosamente) a fare quel che la Bce non poteva fare per il solo effetto del divieto statutario di sottoscrizione diretta.
Non fare confusione sulle politiche
Ho tenuto distinti gli obbiettivi e sono stato possibilista in merito al deficit federale e alle modalità del suo finanziamento. L’obiettivo A richiede manovre keynesiane. Il problema sottostante è infatti, economicamente, quello di attivare domanda al più presto in modo da non lasciare inutilizzate risorse disponibili (capacità produttiva e disoccupati, che sono risorse, che tra l’altro si “deteriorano” se non usate). Questo evento di “attivazione” è, dal punto di vista economico, una semplice “eliminazione di sprechi” e non va confuso con la generazione di un processo che conduce ad uno sviluppo duraturo. Né ha a che fare con competitività, innovazione e con le politiche che possono indurle. Qui il termine “riequilibrio” assume un significato particolare: le politiche europee keynesiane devono essere modulate territorialmente in proporzione a indicatori di disoccupazione e capacità inutilizzata.
Le politiche per sviluppo e occupazione dovrebbero invece costituire il nocciolo forte delle attività di lungo periodo fatte gravare sul bilancio europeo. Tali politiche non hanno bisogno di aumenti della domanda corrente. Hanno invece bisogno di investimenti che costruiscano nel tempo capacità produttiva addizionale e possibilmente diversa, insieme a nuovo e diverso capitale umano, per una produzione maggiore e più competitiva che si svilupperà negli anni futuri. Questo richiede una politica industriale e commerciale e un soggetto politico europeo capace di gestirla (altro che supercommissario all’austerità di bilancio), coordinando i soggetti privati e pubblici che devono cooperare per realizzare gli obbiettivi in questione. In fondo l’unione prima e poi la moneta unica nascevano per fare dell’Europa un polo competitivo planetario. Tutti gli altri poli, tuttavia, hanno strumenti di politica industriale e commerciale e li usano, mentre l’Europa da questo punto di vista è del tutto assente; anzi, peggio che assente, perché si muove più per inseguire concezioni mitologiche del mercato che per rendere l’Europa protagonista nel mercato mondiale (si veda l’appello per una politica industriale europea).
La crisi degli anni 1930 è stata definitivamente superata, negli Usa come nell’Europa, quando l’industria nelle mani dei privati si è coordinata per produrre i mezzi, gli armamenti e le innovazioni connesse che sarebbero state utilizzate nella Seconda Guerra Mondiale. Successivamente alla conclusione della guerra, il decollo dello sviluppo è stato assicurato dagli investimenti connessi al Piano Marshall che, di nuovo, era basato sull’iniziativa privata coordinata da soggetti pubblici e parapubblici, come le banche e altre strutture finanziarie (da questo punto di vista il Piano Marshall era estremamente sofisticato). I processi di sviluppo innescati dal Piano Marshall sono poi continuati, fino al raggiungimento della piena occupazione, sulla base dello stesso tipo di politiche. Per il male prima, e poi per il bene, il binomio stato-mercato ha infatti funzionato a pieno. Si tratta oggi di riprodurre le logiche e le strategie organizzative del secondo dopoguerra a livello europeo a gravare su un bilancio federale notevolmente allargato.
Post scriptum ma non tanto
L’agenda del bilancio europeo fino al 2020 viene gestita quasi in sordina rispetto ad altri eventi, in particolare la decisione finale sul prestito alla Grecia, e comunque separatamente. Questi eventi sono invece tutti collegati e i soggetti politici che, come i sindacati e le forze progressiste, hanno riserve sulla conduzione politica europea non possono “lasciar fare”. Le agende sono importanti. Certe discussioni vanno aperte globalmente e non gestite in tempi diversi e su tavoli diversi. Deve cominciare di qui una svolta.
Purtroppo i soggetti politici progressisti, al di là di molte lamentele, sembra abbiano tutti un atteggiamento subalterno rispetto alle tecnocrazie che, vere responsabili della crisi, gestiscono con intoccabile sacralità quelli che, sempre loro, ritengono siano i soli modi di uscirne.