Cosa succede dopo le elezioni olandesi e la decisione della Corte tedesca? Dalle urne olandesi esce un panorama centrista, ma la società resta polarizzata. Mentre la Bce continua ad accumulare un potere non controllato
L’opinione pubblica europea ha tirato un respiro di sollievo. Nel racconto di gran parte dei mezzi di comunicazione, i Paesi Bassi erano un crocevia fondamentale nel percorso di uscita da questa crisi: europeisti contro euroscettici, moderati – il liberale VVD di Mark Rutte e il laburista PvdA di Diterick Samsom – contro radicali – rappresentati a destra e sinistra rispettivamente dal Partito della Libertà di Wilders e da quello Socialista (SP) dell’emergente Emile Roemer. Il rischio, nella vulgata dominante, era un successo delle ali.
I risultati ci regalano, invece, un panorama centrista. I sondaggi questa volta avevano intercettato le tendenze corrette, sebbene avessero quantitativamente sottostimato il reale flusso elettorale. Dopo l’iniziale boom dell’SP, i dibattiti televisivi hanno sostanzialmente smontato la figura del suo leader incoronando invece Mark Rutte e Dieterick Samsom.
Le ultimissime consultazioni davano tra 32 e 34 seggi, dipendendo della fonte, contro i 30 circa del laburisti. I risultati invece ne assegnano 41 al primo e 39 al secondo. Differenze non abissali, ma abbastanza cruciali: con 150 seggi da assegnare nella Camera bassa, adesso i due partiti hanno i numeri per governare da soli.
A urne chiuse e a risultati acquisiti ha inizio una lunga negoziazione, i due leader hanno cercato di differenziarsi nei dibattiti (spesso il duello è stato raccontato come uno scontro tra le due ombre di Merkel e Hollande). In realtà, i due partiti non hanno la maggioranza nella Camera alta (anche se il bicameralismo olandese non è perfetto) e hanno bisogno di includere altri soggetti nella coalizione. Tuttavia, le altre forze stanno per il momento in attesa: i più gettonati per entrare nella coalizione, i democristiani della Cda, hanno affrontato il quinto calo elettorale consecutivo non voglio dare l’immagine del partito cui interessano le chiavi del potere e non quelle del consenso. Questi però sono solo rumors.
La fotografia del paese dopo le elezioni non si accomoda molto bene a quella raccontata. Tendenze alla polarizzazione sono certamente in atto: i sindacati hanno mostrato un’attitudine più combattiva, minacciando uno sciopero generale (sarebbe un evento epocale) se il bilancio che sarà presentato il prossimo 18 settembre ancora dal governo dimissionario non avrà addolcito le misure di austerità incluse in esso. Altro segno di polarizzazione sono le sfumature anti immigrazione, che avevano portato al potere Wilders – anche se il suo calo era stato intuito da sondaggi e analisti – ma nascoste molto a fatica anche nel discorso dell’SP.
Rimangono problemi strutturali pesanti: il debito privato è oltre due volte il Pil, i mutui da soli sono pari al prodotto interno, e, in una stima per difetto, più del 10% delle famiglie hanno ricchezza netta negativa (più debito che attivo), grazie anche alla deducibilità degli interessi che ha spinto a sovraindebitarsi. Se il Sud svalutasse e riprendesse a crescere, un deflusso di capitali o un ulteriore crollo del prezzo delle case (in discesa dal 2008) farebbe svegliare il paese in una crisi finanziaria: una tessera del mosaico difficile da incastrare quando il disegno che si vuole presentare è quello della periferia “allegretta”.
Di carattere strutturale è anche la politica estera, molto realista per via del legame con il settore esportatore tedesco. Difficilmente queste elezioni avrebbero potuto presentare un cambiamento radicale: il sistema elettorale impone coalizioni ampie e quest’ultime chiedono compromessi. Roemer stesso aveva, infatti, scommesso per la governabilità ed era pronto a trattare, anche se la necessità di consolidare il suo elettorato aveva irrigidito il suo lessico: una contraddizione insanabile, che nei dibattiti televisivi lo ha reso afasico nei passaggi cruciali.
Rimane da capire che tipo di animale politico è il nuovo leader laburista. Più giovane di Rutte di 4 anni (41 contro 45), è un ex attivista di Greenpeace, e ha un profilo “verde” e più a sinistra su questioni interne. Tuttavia non ha certo fatto grossi sconti in ambito europeo, dove si mostra sostanzialmente allineato con il mainstream. I prossimi giorni scioglieranno i dubbi sull’esito delle trattative nella coalizione.
Nel frattempo, scontata l’approvazione del meccanismo di salvataggio da parte del Tribunale Costituzionale Tedesco (nella sua intera storia non aveva mai preso una decisione importante in senso anti europeo), proprio il 12 settembre una mossa decisiva per capire come evolveranno le cose in Europa è avvenuta a Bruxelles. Con il documento proposto per un’unione bancaria, la Commissione propone di centralizzare la supervisione nelle mani della Bce. Se così fosse, ci troveremmo un organismo tecnocratico con un accentramento di potere impressionante e non bilanciato da nessuna autorità democratica.
Le lezioni degli ultimi trent’anni sono le seguenti: a) gli organismi indipendenti tali non sono, perché hanno un legame preferenziale con il sistema finanziario, da cui i suoi membri entrano ed escono e con cui condividono l’humus culturale; b) nemmeno dove si fanno ripetute riforme istituzionali e dichiarazioni ex ante rifiutando di salvare le banche (per esempio il Cile di Pinochet) queste ultime non si lasciano fallire senza intervenire e prevenire richiede interventi pesanti ex ante sulla finanza; c) i passi di integrazione economica sono più facili, ma senza integrazione politica si rivelano non sostenibile. Alla luce di queste lezioni, quello che avviene a Bruxelles è una vittoria del pensiero unico sui dati.