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Il settore difesa a rischio bolla speculativa

L’Italia stanzia altri 6 miliardi per il Global Combat Air Programme, caccia di sesta generazione, oltre a F35 e Eurofighter Typhoon, a cui è interessata Ryad. Intanto c’è chi pensa che la proliferazione dell’industria bellica è tale che provocherà una bolla nonostante le guerre.

Il Global Combat Air Programme: costi e posizionamento strategico

Nel dicembre 2022 prende il volo il Global Combat Air Programme (GCAP), al quale partecipano, con il sostegno dei rispettivi governi, la britannica BAE Systems, l’italiana Leonardo e la giapponese Mitsubishi. In questo programma per la costruzione di un aereo da caccia di sesta generazione, destinato a sostituire l’Eurofighter Typhoon, confluiscono il progetto del Tempest avviato nel 2020 da una cooperazione industriale tra Regno Unito, Italia e Svezia e il progetto nipponico F-X. 

Attualmente l’Italia utilizza diversi tipi di caccia appartenenti a diverse generazioni. Tra questi, 58 caccia-bombardieri Tornado (sostituiti progressivamente dagli F35) e 95 caccia-intercettori Eurofighter Typhoon di quarta generazione, sviluppati insieme a Germania, Regno Unito e Spagna.  A questi si aggiungono i 30 caccia-bombardieri F35 – già in servizio o in fase di test – e quelli già ordinati alla statunitense Lockheed Martin. In tutto 55 velivoli sui 90 previsti, per un costo complessivo di 18,2 miliardi di euro, più altri 55 miliardi per la manutenzione. Infine, nel mese di luglio 2024, è stato trasmesso al Parlamento il decreto ministeriale per l’acquisizione di altri 24 caccia-intercettori Eurofighter Typhoon (di nuova generazione) e per il supporto tecnico logistico dell’intera flotta, con uno stanziamento complessivo di 7,4 miliardi di euro. Convivono pertanto contemporaneamente più generazioni di questo tipo di velivoli.

Il Global Combat Air Programme, per il quale l’Italia ha già stanziato 6 miliardi di euro per le fasi di ideazione, progettazione e sviluppo è in competizione con un altro programma europeo simile, l’FCAS, lanciato nel 2017 da Francia e Germania. Secondo Il Sole 24 Ore, molti analisti ritengono che l’Europa non disponga delle risorse necessarie per sostenere due nuovi e costosissimi programmi aeronautici militari. 

Al momento del suo lancio, il GCAP ha attirato l’attenzione per vari motivi.

Prima di tutto si allontana dal contesto europeo, da quello NATO; spostandosi verso l’Indo-Pacifico. Un report dell’Istituto Affari Internazionali (IAI) su questo programma ha sottolineato la valenza strategica di questo spostamento, che colloca l’Italia in un contesto internazionale più ampio: “La partecipazione ad un programma militare avanzatissimo e la futura entrata in servizio di un velivolo di sesta generazione, complicheranno sicuramente i rapporti con la Cina, introducendo una nuova e forse imprevista variabile nella sua strategia espansionistica. [..]Ma anche l’Europa, e in parte l’Unione Europea, verranno così coinvolte nel grande gioco globale che si svolgerà con crescente forza ed intensità in quell’area che oggi ci sembra lontana, ma che comincia ad essere, invece, vicina”. 

Tuttavia, al momento del lancio, si è posto l’accento sui punti in comune dei paesi partecipanti: Italia, Gran Bretagna e Giappone. Pur non essendo un progetto europeo, i paesi partecipanti vedono come terreno comune la difesa della democrazia e del diritto internazionale e dei diritti umani. Il comunicato del 9 dicembre 2022, infatti, precisa che: “Le nostre tre nazioni hanno relazioni strette e di lunga data, basate sui valori di libertà, democrazia, diritti umani e Stato di diritto. Stiamo oggi compiendo il passo successivo nel rafforzamento del nostro partenariato trilaterale. Annunciamo il Global Combat Air Programme (GCAP), un ambizioso progetto volto allo sviluppo di un aereo da caccia di nuova generazione.”

Il secondo motivo riguarda i tempi e i costi del progetto GCAP, che sono notevoli. Il comunicato stampa del 9 dicembre 2022 annunciava che il nuovo aereo da caccia sarebbe stato disponibile a partire dal 2035. Nel frattempo i costi degli armamenti continuano a crescere. Dal 2022 al 2023, le spese per questi aerei militari sono passate da 3,8 miliardi a 8,8 miliardi di euro. Secondo Michele Nones dell’Istituto Affari Internazionali, “La dinamica dei salti generazionali nei grandi sistemi d’arma, che comportano innovazioni sempre più spinte, fa salire i costi a livelli mai conosciuti. Torna così di attualità la surreale premonizione di Norman Augustine, un dirigente industriale americano del settore aerospaziale, il quale nel 1984 aveva ipotizzato che continuando sulla strada degli aumenti nel 2054 l’intero budget della difesa avrebbe consentito di acquistare un solo velivolo”. 

Che la realtà stia andando in quella direzione, lo conferma quanto affermato di recente su DefenceNews dal segretario dell’aeronautica americana (Usaf) Frank Kendall, in merito allo sviluppo del caccia di sesta generazione NGAD (Next Generation Air Dominance), per sostituire gli F-22 “Raptor”. L’Usaf ha “ripreso in mano” il progetto, avviato nel 2014, in considerazione del fatto che sia “una piattaforma aerea molto costosa” che “costa circa tre volte il prezzo di un F-35, e possiamo permettercelo solo in piccole quantità”. L’Usaf vorrebbe fino a 200 NGAD, la cui produzione in serie dovrebbe cominciare prima del 2030, ma problematiche industriali di Boeing e Lockheed-Martin (che dovrebbero realizzare i prototipi) potrebbero ritardarne la produzione, aumentarne i costi costringendo il Pentagono a ridurne il numero, oppure ridimensionarne le caratteristiche, e quindi le capacità operative.

Il possibile ritiro della Gran Bretagna e l’entrata dell’Arabia Saudita

Recentemente, tuttavia, è emerso che i partner britannici potrebbero ritirarsi dal progamma GCAP . La vittoria schiacciante del Partito Laburista nelle ultime elezioni ha cambiato le priorità del governo britannico. Con 410 seggi su 650 nella Camera dei Comuni, rispetto ai 118 dei Conservatori, il nuovo governo si è impegnato a ridurre le diseguaglianze, tassare i ricchi e ridurre le spese secondo cui il governo inglese nel quadro della spending review potrebbe decidere di posticipare, o annullare, la partecipazione al progetto GCAP, preferendo destinare risorse a spese sociali e welfare. La sicurezza dei cittadini britannici, secondo il nuovo esecutivo, passa anche attraverso un sistema di welfare che riduca le diseguaglianze e migliori la qualità della vita.

In Italia la sanità è in difficoltà: è sempre più difficile trovare un medico, la vita media è diminuita e la probabilità di sopravvivenza degli anziani che accedono al pronto soccorso è ridotta. Anche la scuola soffre di continui tagli, dalla primaria all’università. La sicurezza della maggior parte dei cittadini dipende anche da questi servizi. Un recente studio di Sbilanciamoci! ha dimostrato che, a fronte di un aumento delle spese per armamenti del 132% dal 2013 al 2023, la spesa pubblica è cresciuta solo marginalmente, del 13%, le spese per la sanità sono cresciute dell’11% e quelle per l’istruzione e per l’ambiente rispettivamente solo del 3% e del 6%.

Tale tema non è tuttavia stato discusso in Parlamento. L’ad di Leonardo si è affrettato a rassicurare che, nel caso di uscita (o di un minor apporto) della Gran Bretagna,  al suo posto potrebbe entrare l’Arabia Saudita, da tempo interessata al programma. Tale opzione, in passato, aveva sollevato obiezioni da parte del governo giapponese. Secondo quanto riporta la rivista Formiche, tra le altre cose, “la discussione politica a Tokyo riguarda quali potranno essere i paesi importatori di armamenti Made in Japan. La presenza saudita nel progetto, visto il discutibile track-record in termini di diritti umani e azioni di guerra (in Yemen), che ha bloccato anche vendite da parte americana ed europea, può complicare le cose a livello di dibattito interno”. Inoltre, continuano gli autori: “C’è poi un aspetto pratico: mentre tutti e tre i partner hanno expertise e capacità tecniche e tecnologiche di primissimo livello, i sauditi ne sono privi. In più stanno già emergendo preoccupazioni per la sicurezza delle informazioni ipersensibili del progetto: l’inserimento di un quarto membro aumenterebbe la diffusione di dati – e per altro in un paese dove la componente cyber è molto penetrata da aziende cinesi come Huawei, accusata di attività di spionaggio per conto della Difesa di Pechino”. 

Tutte le contraddizioni della difesa europea racchiuse in un programma

Al di là delle conferme o meno, il dibattito attuale mette in luce una serie di nodi, incertezze e di contraddizioni che riguardano la difesa italiana ed europea.

Da un punto di vista di allocazione della spesa pubblica, ha senso per l’Italia investire ulteriori risorse pubbliche per i nuovi caccia Tempest, quando siamo ancora lontani dall’aver completato l’acquisto di tutti gli F35 e stiamo decidendo l’acquisto di altri 24 Eurofighter Typhoon in una nuova versione ancora più tecnologicamente avanzata?

Dal punto di vista dell’integrazione dell’Unione Europea ha senso che si continuino a sviluppare nuovi e costosissimi sistemi d’arma in contrapposizione tra loro? Le scelte che si stanno compiendo in campo aeronautico contraddicono la decisione UE di incrementare l’acquisto “made in Europe” al 60% delle proprie spese in armamenti, rispetto all’attuale 20%, come documentato dall’ Institut de relations internationales et strategiques (Iris).

Da un punto di vista finanziario, le varie problematiche sia di natura tecnologica che etica, alimentano le incertezze che da qualche mese investono il comparto. Si assiste, infatti, oltre che ad un disaccoppiamento tra andamento dei fatturati e occupazione, anche ad una divaricazione tra un’effettiva efficienza operativa delle imprese e la crescita esponenziale del loro valore azionario (cresciuto del 124% da gennaio 2022 a gennaio 2024). Nell’ultimo rapporto di Mediobanca su 330 multinazionali industriali mondiali, riferito ai conti del 2023 e ai primi 3 mesi del 2024, le industrie della difesa per reddittività operativa figurano al penultimo posto (con un Ebit margin del 7,2 in calo dello 0,2 rispetto al 2022) e all’ultimo posto per intensità di investimento (investimenti in % del fatturato). Hanno una solidità patrimoniale (ammontare dei mezzi propri rispetto ai debiti finanziari) e una liquidità inferiore alla media di tutti i settori, nonostante siano al secondo posto per crescita del fatturato. Del tutto diverso è il rendimento azionario aggregato a livello di settore, che ha registrato nel 2023 un +23,8% e ben +22,8% nei primi tre mesi del 2024 (primo posto). Dal 2019, mentre l’indice azionario globale è cresciuto da 100 a 144,4, quello delle 30 principali multinazionali della difesa (escluse le cinesi e le russe) ha raggiunto l’indice 207,2. Per queste ragioni, come evidenziato da Il Sole24 ore, secondo gli analisti finanziari, mentre ci si avvicina al 2025, le valutazioni dei titoli dell’industria della difesa europea presentano probabilmente maggiori rischi al ribasso che una possibilità al rialzo. Gli analisti di Goldman Sachs, nei mesi scorsi e anche recentemente, hanno ritenuto i rendimenti azionari di Leonardo sovrastimati, precisando che le azioni del comparto militare viaggiavano su valutazioni superiori agli utili attesi, in quanto lontane dalle attese di miglioramento della reddittività operativa. Tutto ciò alimenta un clima di incertezza e la sovraesposizione mediatica denota un certo nervosismo, con il timore di una bolla speculativa.

Altre incertezze di diversa natura riguardano anche altri programmi come quelli relativi ai tempi di consegna per progetti in ambito terrestre sui quali si va orientando parte della capacità produttiva europea. Ad esempio le aziende Leonardo e Rheimetall hanno stretto un accordo per sviluppare una versione italiana dei carri armati Panther, a partire dal prototipo tedesco del Panther KF51. Il contributo di Leonardo riguarderà indicativamente la costruzione delle torrette e la parte elettronica. Le due aziende e mirano ad avere commesse per circa 20 miliardi di euro dal governo italiano per la costruzione di 280 carri armati e 1000 cingolati più leggeri.

Ma questo obiettivo richiede tempi molto più veloci rispetto agli attuali, competenze diverse di medio livello, che vanno formate, e forti investimenti. La preoccupazione degli esperti del settore è pertanto quella di non riuscire a produrre i carri armati richiesti nei tempi stabiliti. D’altronde è proprio l’urgenza che ha spinto molti governi a rivolgersi a industrie extraeuropee. 

Dal punto di vista della domanda di armamenti, vale a dire le spese militari, bisogna tenere conto che, come riportato dall’Iris francese e dalla Commissione UE, il 78% delle spese per armamenti viene importato da paesi extra Ue, prevalentemente dagli alleati oltreoceano dalla Corea del Sud. Tre aziende americane coprono circa l’80% di questa fetta extra europea. Secondo l’economista Romano, che ha effettuato un’indagine sulle 2.500 multinazionali degli armamenti, ogni aumento della spesa militare ha determinato un aumento della dipendenza tecnologica dagli USA delle industrie europee e ha penalizzato maggiormente le corporations europee. Questo in parte spiega perché l’aumento delle spese militari non si sia tradotto in maggiore occupazione e crescita rispetto a investimenti pubblici in altri settori, ma sia stato accompagnato in alcuni paesi come la Germania da un rallentamento dell’economia

Sempre sul versante della domanda, al di là delle roboanti dichiarazioni circa l’aumento dei budget della difesa, non si può non tener conto delle posizioni dei cittadini europei ed italiani, stanchi della guerra e favorevoli a soluzioni diplomatiche. Secondo un recente sondaggio dell’European Council of Foreign Relations, la maggioranza degli italiani (63%) è contraria ad aumentare le spese militari nonostante la guerra in Ucraina e solo il 9% favorevoli (anche in Francia, Gran Bretagna, Grecia, Spagna la maggioranza è contraria all’aumento delle spese militari). Tutto ciò è dovuto anche alla consapevolezza che il warfare comporta tagli al welfare e che la sicurezza passa anche dalla certezza di essere curati bene e di avere accesso ad un’istruzione gratuita e di qualità. Secondo molti analisti, le elezioni europee hanno travolto proprio i rappresentanti politici più favorevoli ad un incremento di spesa militare e al militarismo. E si avvicinano le elezioni americane. Si può ignorare la posizione della maggior parte dei cittadini tanto a lungo? Si tratta di scelte di politica estera ed economica che incidono concretamente e direttamente sul presente e sul futuro dei cittadini europei. Ascoltarli è anche una questione di democrazia. 

Fonte: European Council of Foreign Relations

Da un punto di vista strategico emerge una certa confusione riguardo la collocazione dell’Italia. Se da un lato, infatti, la proiezione militare del nostro paese attraverso la NATO nell’Indopacifico potrebbe essere giudicata potenzialmente conflittuale con la Cina come rileva l’Istituto Affari internazionali, dall’altro, durante il viaggio della premier Meloni in Cina, per ricostruire la “Via della seta”, tra le aziende al seguito della premier vi era, paradossalmente, anche Leonardo. Emerge quindi la necessità di riflettere sul concetto di sicurezza, che può assumere diverse accezioni a seconda che si dia priorità alle aree più vicine geopoliticamente all’Italia, o si seguano le priorità dei nostri alleati o ancora si elabori un concetto di sicurezza umana che intrecci più tipologie di minacce, inclusa la minaccia climatica, e risposte interdipendenti, favorendo la cooperazione internazionale e un dialogo con il Sud globale per evitare la catastrofe ambientale.

Infine, da un punto di vista etico, alle contraddizioni legate alle politiche di spesa pubblica e a quelle industriali e finanziarie si aggiunge l’incoerenza tra una politica estera che si schiera dalla parte delle democrazie e una politica degli armamenti che collabora con molte autocrazie. Oltre l’esportazione di armamenti verso questi paesi, si stanno intensificando gli accordi di cooperazione industriale e trasferimento tecnologie militari e dual-use.  

La legge 185/90 vieta l’esportazione di armi verso paesi in guerra, che violano i diritti umani o il diritto internazionale umanitario. Se dobbiamo promuovere democrazia e diritti umani, dicono le associazioni della Rete Italiana per il Disarmo, perché collaboriamo con paesi classificati come non liberi e coinvolti in conflitti che hanno causato molte vittime? In ogni caso perché non inserire una clausola che vincoli i partecipanti ai programmi di coproduzione, a rispettare la lettera della legge 185/90 e dei trattati internazionali? 

In conclusione, il progetto GCAP solleva questioni economiche, finanziarie, sociali, etiche, strategiche di politica estera emblematiche per la difesa italiana ed europea e aumenta l’incertezza.  È fondamentale discutere e approfondire questi aspetti a livello parlamentare, al fine di costruire un concetto di sicurezza umana multidimensionale, che non si limiti più agli interessi, peraltro transitori, di pochi privilegiati, ma che si estenda al benessere del restante 99% della popolazione, in un’ottica planetaria.