La crisi è anche il risultato degli schemi conoscitivi dell’economia tradizionale. Le soluzioni richiedono interventi che riflettano un diverso modo di pensare. A cominciare dalla finanza, dal debito, dal lavoro, dalla distribuzione del reddito
Alcuni interventi usciti su Sbilanciamoci hanno messo giustamente in evidenza il carattere paradossale che ha assunto la politica di intervento a partire dall’insorgere della crisi, in particolare in Europa. Il fatto che si parli di articolo 18 quando il problema è chiaramente quello della disoccupazione di lungo periodo, che la banca centrale abbia deciso di passare attraverso il sistema bancario europeo per sostenere i paesi con problemi di debito sovrano, permettendo a questo di lucrare abbondantemente nell’intermediazione, può costituire una misura del ruolo assunto dalla finanza nel sistema economico internazionale. Ruolo che emerge forse anche con maggiore chiarezza nel fatto che quegli stessi mercati finanziari che, nell’opinione comune, con i loro comportamenti a dir poco omertosi, hanno contribuito all’esplodere della crisi, si ritrovano ad essere considerati i giudici della qualità delle manovre economiche avviate per risolvere i problemi di debito pubblico di alcuni paesi che sicuramente le politiche di salvataggio della finanza hanno accentuato.
Guardando le cose un po’ più da lontano mi sembra che si possa dire che la politica di intervento stia apparendo sempre più paradossale per tre ordini di motivi. Il primo è che in momenti di crisi è molto più difficile che una società che sta pagando costi elevati dia per scontato il fatto che siano le strutture sociali all’interno dei singoli paesi ad adattarsi alle regole imposte dai mercati finanziari, e non il contrario. Il secondo è perché il contenuto delle risposte che si stanno dando alla crisi rende più trasparente da un lato il potere dei mercati finanziari nel condizionare il nostro modo di vivere e, dall’altro, il fatto che questi mercati sono il luogo dove si coagulano – e si organizzano – interessi che quasi mai coincidono con quelli della gran parte delle società nazionali. In sostanza perché le regole che ci governano, plasmate in funzione degli interessi dei gruppi sociali più forti, hanno attivato meccanismi economici che entrano in misura crescente in conflitto con diritti che la società considerava ormai acquisiti. Ma esiste un terzo motivo, forse anche più determinante nel far apparire paradossali le politiche che si stanno perseguendo. La percezione diffusa è che queste politiche, nonostante gli alti costi sociali connessi a esse, non riescano a garantire il raggiungimento dei risultati sperati. Quella che sta emergendo, in altre parole, è una consapevolezza crescente non solo del fatto che un sistema internazionale centrato sui mercati finanziari incontra ostacoli significativi, ma non funziona più la cultura che quel mondo aveva generato. Quella che si è realizzata, in altre parole, è una frattura tra “il progetto operativo” a cui si è fatto riferimento in questi anni (e quindi “gli schemi conoscitivi” che ne hanno costituito il retroterra) e che viene riproposto con la politica di intervento e gli obiettivi che è diventato necessario perseguire.
Se il compito degli economisti (come ricordano Kuznets e Myrdal) può essere considerato normalmente quello di sollecitare la politica affinché “siano realizzate tempestivamente le trasformazioni istituzionali e ideologiche essenziali per l’avanzamento civile”, credo che tutti noi dobbiamo avere la coscienza che in un momento in cui il nesso tra obiettivi, schema conoscitivo e progetto operativo è in qualche modo da ricostruire, in cui la politica è estremamente debole, questo compito richiede uno sforzo assolutamente eccezionale. Eccezionale ma reso necessario dalla consapevolezza che la tendenza all’impoverimento dei ceti medi non può che minare la coesione sociale e politica in Europa e in Italia con il conseguente rafforzamento delle posizioni populiste – che hanno avuto come massimo esponente Berlusconi – e indebolimento delle democrazie.
È dunque l’urgenza con cui si pongono i problemi che ci deve spingere a soffermare la nostra attenzione su come articolare una proposta di “diversa” politica di intervento e aprire una discussione il più possibile aperta in luoghi come Sbilanciamoci. Ci può essere di incoraggiamento, a questo proposito, quanto è successo negli anni trenta, quando è stata la necessità di trovare una soluzione ai problemi che derivavano dalla (prima) grande crisi, e quindi la necessità di una politica di intervento incisiva, che ha in qualche modo anticipato il momento teorico e ha costituito l’ossatura intorno alla quale si è poi aggregato il vero e proprio cambiamento del paradigma.
A mio giudizio, i punti di riferimento di una riflessione sulla politica di intervento potrebbero essere:
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considerare il punto di partenza per qualsiasi intervento i fatti e il bisogno di trovare soluzioni ai problemi che si stanno ponendo. Un atteggiamento pragmatico che può avere anche il ruolo di smontare quegli occhiali ideologici che hanno “viziato” e “viziano” l’attuale conduzione della politica economica, soprattutto in Europa.
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reclamare il diritto alla faziosità di cui parlava Carnevali. Un diritto sostenuto non solo da un ampio retroterra di letteratura che ha sottolineato come non sia possibile separare le filosofie sociali e le posizioni politiche dal loro apporto analitico, ma anche, di nuovo, dai fatti. Se una scienza “neutrale” ha comportato uno spostamento nella distribuzione del reddito tra i 10 e i 15 punti percentuali (del Pil) a favore del capitale è evidente che essere “faziosi” diventa sempre più indispensabile. Anche perché lo sviluppo di lungo periodo richiede scelte come quelle sulla distribuzione del reddito (ma non solo) che il mercato non solo non può fare perché le sono del tutto estranee, ma tende a piegare in una direzione incompatibile con tale sviluppo. Essere di parte, difendere la democrazia vuol dire riaffermare valori che sono di rango superiore rispetto a quelli economici e contemporaneamente vuol dire mettere in moto i meccanismi che garantiscono lo sviluppo di lungo periodo.
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non rinunciare mai a riproporre come centrale la questione dell’occupazione, con tutte le conseguenze che questa scelta implica dal punto di vista della politica economica. Una politica dunque che interpreti in questa ottica una sfida come quella posta dalla gestione macroeconomica della crisi sulla quale è concentrata oggi l’attenzione, ma che sia ugualmente consapevole di altre sfide non meno importanti nel più lungo periodo che stiamo colpevolmente trascurando quali quelle poste dal bisogno di salvaguardare e riqualificare la struttura produttiva, dalla necessità di nuove regole, grandi ma anche secondarie, dai processi di frammentazione del lavoro che possono rompere la coesione sociale; soprattutto, dal bisogno di rispondere all’esigenza di un nuovo rapporto tra interessi economici e società.
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dedicare particolare attenzione alla questione delle istituzioni, nazionali, ma ovviamente non solo. Questione delle istituzioni intesa in senso lato; da un lato come proposte di ripensamento più o meno radicali del ruolo e delle funzioni di istituzioni che già esistono, ma, dall’altro come riflessioni sulle istituzioni che non ci sono, ma che potrebbero o dovrebbero esserci. Ridando quindi spazio ad una creatività alla politica di intervento che l’ortodossia economica sembra aver spento.