La Bce prende atto che quel che ha fatto finora non è bastato. E l’Italia è quella che rischia di più: l’anno prossimo, 25 miliardi di deficit in più solo per il “premio al rischio”. A crisi straordinaria, politiche straordinarie
La situazione è seria, molto seria. La banca franco belga Dexia è saltata, schiacciata dalle perdite sui titoli di stato. Le svalutazioni sui titoli greci che le banche sono chiamate ad accollarsi supereranno il 60% del valore nominale. Il Presidente uscente della Banca centrale europea (Bce), Jean Claude Trichet, ha dichiarato in un’audizione al Parlamento Ue che “la crisi, che ora è sistemica, nelle ultime tre settimane è peggiorata e le istituzioni devono agire rapidamente, senza ulteriori ritardi che altrimenti aggraveranno la situazione”.
Trichet ha preso atto che le iniziative europee (il “fondo salvastati”), del Fondo monetario internazionale (prestiti ai paesi in difficoltà) e i provvedimenti inusuali dell’Eurosistema (tra gli altri, acquisto di 60 miliardi di obbligazioni bancarie garantite e 75 miliardi di titoli di stato già prima di giugno; liquidità a rubinetto in euro, dollari sterline, yen e franchi svizzeri per tutti gli operatori finanziari; ulteriori massicci acquisti di titoli nelle ultime settimane) non sono stati sufficienti per riportare la fiducia sui mercati finanziari.
Non poteva essere altrimenti perché, con l’evidente perdita di credibilità nella sostenibilità delle finanze pubbliche di alcuni paesi, la crisi non si poteva risolvere soltanto mediante iniezioni di sempre maggiore liquidità. I capitali hanno lasciato la Grecia e stanno andando via dall’Italia; in Europa si dirigono verso gli stati più ricchi, nel mondo verso gli Stati uniti, paesi in cui il rendimento dei titoli di stato è sceso a livelli molto bassi nel confronto temporale.
La fuga dall’Europa si è trasformata in domanda di dollari e la moneta statunitense ha ritrovato l’antico monopolio come moneta internazionale di riserva. Nell’attivo della Federal Reserve, la banca centrale Usa, è aumentata la quantità di euro (che sono passività dell’Eurosistema) ceduti dagli operatori mondiali. La perdita di credibilità dell’economia del nostro paese e dei suoi governanti sta alimentando l’instabilità dell’intero sistema finanziario internazionale.
Questo è il quadro drammatico in cui va letta la lettera del Presidente della Bce e del Governatore della Banca d’Italia al nostro governo; si tratta di una misura più che inusuale, irricevibile sul piano istituzionale in condizioni di normalità. Aldilà delle concrete misure sollecitate, molte delle quali non condivisibili, la lettera richiede due obiettivi non derogabili: il pareggio di bilancio e il rilancio dell’economia. Il corollario, non esplicitato, ma del tutto ovvio, è il cambio di governo.
Il pareggio di bilancio è forse un obiettivo insufficiente per ricreare un clima di fiducia negli investitori internazionali. Il debito ha superato i 1900 miliardi di euro, un valore che con le vecchie lire sarebbe stato impronunciabile e avrebbe avuto bisogno di 16 cifre per essere rappresentato (3.650.000.000.000.000 lire); il premio al rischio attribuito dal mercato ai titoli con durata superiore a un anno rimane ampiamente superiore ai tre punti percentuali a quello degli analoghi titoli tedeschi e di quasi un punto a quelli spagnoli. Se non ci saranno miglioramenti nella sostenibilità del debito, nel bilancio dello stato del prossimo anno gli interessi passivi aggiuntivi – che compensano il maggior rischio degli investitori – sarà dell’ordine di 25 miliardi, per oltre metà pagati all’estero. Si tratta di una “mezza manovra” in più, che vale un punto e mezzo di Pil, da ripetere ogni anno, riducendo altre spese pubbliche o aumentando le entrate fiscali. Con i vecchi titoli che vengono in scadenza, da rifinanziare con nuovo debito a tassi più alti, quest’aggravio di interessi passivi potrebbe raddoppiare in un triennio.
Quest’emergenza nei conti pubblici deve essere affrontata con una straordinaria, credibile ed equa politica di risanamento, che non può che avere al centro una nuova tassazione della ricchezza privata del paese, che in questi anni è cresciuta e si è concentrata nelle mani degli italiani più fortunati. Ma allo stesso tempo è essenziale una politica che faccia ripartire la crescita dell’economia, su binari diversi dal passato. Le potenzialità migliori sono nella direzione di una green economy che crei nuovi beni e servizi sostenibili sul piano ambientale in attività ad alta intensità di occupazione, e di un aumento della produttività e competitività delle imprese fondato su miglioramenti di qualità, anzichè sulla riduzione dei costi, quello del lavoro in particolare. Una crescita lungo tali direzioni consentirebbe di migliorare la bilancia dei pagamenti e la posizione patrimoniale del paese, riducendo la necessità di finanziare all’estero il nostro debito. In questo modo la “bolletta energetica” del paese potrebbe essere drasticamente ridotta. Occorre qui porsi obiettivi ambiziosi, ad esempio di portare entro il 2020 la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili ad almeno il 70% del totale; gli edifici devono avere un rendimento energetico molto superiore all’attuale; va disincentivato ogni consumo superfluo di energia e di risorse naturali non rinnovabili, anche con un’adeguata tassazione ambientale. Tale politica avrebbe enormi potenzialità, sostituendo materie prime importate con investimenti moltiplicativi di reddito e capaci di creare nuova (e buona) occupazione.
In assenza di azioni di questo tipo, proseguirà l’agonia finanziaria dello stato, con il continuo drenaggio di risorse per il pagamento degli interessi (quello che Guido Viale definisce “default come processo”) oppure la dichiarazione d’insolvenza (“default come evento”). La prima prospettiva impoverisce progressivamente il paese fino all’epilogo di tragedia greca, la seconda presenta moltissimi rischi sul piano economico e sociale. In entrambi i casi, sarebbe falcidiata la ricchezza delle famiglie e delle imprese con effetti demoltiplicativi di reddito per il calo della domanda e precluso per molti anni l’accesso dello stato ai mercati finanziari internazionali; il crollo del sistema bancario minerebbe le fondamenta del circuito del credito e gli investimenti diventerebbero molto più difficili.
Oppure c’è la strada dell’uscita dall’euro e del ritorno della lira. Si tratta di un percorso inesplorato con molti rischi; il valore della lira rispetto alle altre monete internazionali sarebbe fissato ad un livello basso; le esportazioni dei beni ancora prodotti in Italia potrebbero crescere, ma tutte le merci importate avrebbero notevoli incrementi di prezzo, con rischi di inflazione e peggioramento dei redditi reali; qualora il debito restasse denominato in euro sarebbe più difficile da rimborsare; una fuga di capitali privati verso l’estero sarebbe probabile, peggiorando notevolmente i conti del paese e le possibilità di ripresa.