Le agenzie di rating imperversano. Hanno di nuovo bocciato la Grecia, spingendola alla ristrutturazione del debito. Dopo, però, chi comprerà le merci tedesche?
Le vicende caotiche e affannose degli ultimi mesi relative alle difficoltà finanziarie di alcuni paesi europei, dalla Grecia all’Irlanda, dal Portogallo alla Spagna, con sullo sfondo le minacce di destabilizzazione dell’euro, ci spingono a cercare di mettere, per quanto possibile, alcuni punti fermi sulle questioni in gioco, cosa peraltro abbastanza difficile. Nel testo faremo riferimento in particolare, tra l’altro, a quanto è sinora emerso in proposito sulla grande stampa internazionale, nonché a un pamphlet pubblicato di recente con la firma di un certo numero di economisti francesi, testo che peraltro metteremo presto a disposizione dei lettori del sito. Riprenderemo, inoltre, alcuni concetti già espressi in un articolo scritto per questo stesso sito circa un anno fa, in data 12 maggio 2010 e che ci sembra che restino ancora validi.
2) per altro verso, le autorità di Bruxelles stanno trattando il caso greco come se esso si riducesse a una crisi di liquidità, di mancanza cioè solo temporanea di risorse finanziarie. Nella sostanza, invece, si tratta di una crisi di solvibilità, nonostante il diverso parere di qualche isolato esperto finanziario, come il nostro Bini Smaghi; in altri termini, il paese non possiede apparentemente attività sufficienti per ripagare tutti i debiti o, almeno, si trova in una situazione in cui sarebbe difficilissimo alienare in un tempo relativamente breve, come sarebbe necessario, tutte le attività. Quindi, anche da questo punto di vista, sembra che si stia combattendo una battaglia sbagliata;
3) in un certo senso, con i tassi di interesse sui titoli di stato greci che hanno raggiunto ormai in questi giorni il 17%, appare chiaro che il paese non potrà più accedere al mercato per finanziarsi e che quindi i soldi che continuano a essere necessari dovranno arrivare nei prossimi mesi e anni, volenti o nolenti, dagli stati europei e dal fondo monetario internazionale, come sottolinea di recente W. Munchau (Munchau, 2011). Quando, tra qualche anno, i privati e, in particolare, le grandi banche tedesche e francesi, si saranno così sbarazzate dei loro titoli greci, il conto lo pagheremo noi. Probabilmente allora si arriverà a un taglio del 50-70% dell’intero debito;
4) la posizione della Germania appare abbastanza singolare e apparentemente tutta dettata da preoccupazioni politiche interne di corto respiro (si vedano in proposito Wolf, 2010 e l’Economist, 2010). Come abbiamo già ricordato un anno fa, circa la metà delle esportazioni tedesche, fattore sul quale si basa la prosperità del paese, va verso gli altri stati della zona euro. Essa tende a vedersi come un paese virtuoso e a valutare i suoi vicini come cicale spendaccione, considerando inoltre ovvio che l’onere degli aggiustamenti necessari debba gravare su questi ultimi. Ma la Germania può essere quella che è – un paese con una forte disciplina di bilancio, una domanda interna debole e un grande surplus della bilancia commerciale – solo perché altri non lo sono. Ora essa pretende che tutti i paesi eliminino i loro deficit pubblici eccessivi. Il risultato più probabile di tale politica sarà quello di un rilevante rallentamento delle economie con larghi deficit di bilancio e del commercio estero. La Germania non può volere che i suoi vicini continuino a comprare le merci tedesche ma smettano di prendere a prestito del denaro sui mercati. Dal momento che i suoi surplus commerciali sono i deficit di qualcun altro e che i suoi successi sono fatti almeno in parte a spese dei suoi vicini – il saldo della bilancia commerciale tedesca con la Cina è in forte deficit, deficit che viene colmato dal suo surplus con gli altri paesi europei – tale posizione appare del tutto incoerente. I paesi in surplus devono finanziare quelli in deficit – come fanno da tanti anni la Cina e il Giappone con gli Stati Uniti – altrimenti questi ultimi non potranno più continuare a comprare le merci tedesche;
5) i problemi della Grecia, come quelli di tutti i paesi del Sud Europa, compresa l’Italia, sono anche problemi strutturali, di scarso livello competitivo delle sue imprese, problemi che una volta, prima del varo dell’euro, venivano risolti periodicamente attraverso delle svalutazioni delle rispettive monete, cosa che oggi non si può più fare. Sarebbe necessario quindi non bastonare tali paesi con politiche di bilancio assurde, ma aiutarli attraverso il varo di un grande piano di investimenti a livello europeo che contribuisca fattivamente a innalzare il loro livello di competitività. Così ha fatto ad esempio la stessa Germania, dopo l’unificazione, nei confronti della parte est del paese e così ha provato a fare – ma avrebbe dovuto fare meglio – a suo tempo l’Italia con la Cassa per il Mezzogiorno;
6) la storia sembra ricordarci che è difficile che si diano alla fine unioni monetarie senza anche unioni politiche. Per questo la crisi in atto finirà inesorabilmente, magari fra qualche anno, o con l’uscita di diversi paesi dall’euro e la creazione di un’eurozona limitata alla Germania e ai paesi del Nord Europa o con un’unione anche politica del continente (Munchau, 2011), le cui forme specifiche e i cui vari passaggi sarebbero ovviamente tutti da definire. Da questo punto di vista appare desolante constatare come oggi il progetto europeo sia del tutto bloccato e anzi in almeno parziale ritirata. Alla fine, comunque, questa crisi riguarda la politica, non l’economia (Meyer, 2011). Molti uomini politici di diversi paesi approfittano, tra l’altro, delle difficoltà degli stati del Sud per sabotare la solidarietà europea e per creare o sviluppare un sentimento anti-europeo;
8) la stretta di bilancio che viene in questo momento applicata in Europa, ma la cui filosofia di fondo pervade anche la Gran Bretagna e gli Stati Uniti – paesi anch’essi presi in questo momento nel vortice dei tagli – ci riporta anche a un paradosso, a una nemesi della storia. I paesi occidentali, che hanno imposto per decenni a quelli dell’allora Terzo Mondo il Washington consensus – fatto appunto di tagli ai bilanci pubblici, di privatizzazioni, di riduzioni dei salari e così via – oggi, come ha rilevato qualche commentatore, si ritrovano a subire l’imposizione di politiche per molti aspetti similari e che si riveleranno alla fine come altrettanto fallimentari;
9) si può provare un sentimento di rabbia, come hanno sottolineato diversi esperti, nel vedere che agenzie di rating che negli ultimi dieci anni, dalla crisi della Enron alla bolla internet alle difficoltà attuali, hanno sbagliato tutte le loro stime e dovrebbero quindi ormai essere sommerse dal discredito universale, continuare invece a essere prese ancora molto sul serio. Così, i vari paesi europei attendono con trepidazione ogni mattina il responso di Fitch o di Moody’s, alcuni pregando il cielo affinché esso non sia troppo duro, altri aspettando con rassegnazione che venga il loro turno a essere chiamati alla resa dei conti ed esposti al pubblico ludibrio. A proposito, fra quanti mesi, o forse settimane, sarà il turno dell’Italia? Parallelamente, i mercati finanziari, appena salvati dall’intervento degli stati, tendono a punire ora gli stessi stati per i loro deficit eccessivi provocati peraltro proprio in molti casi dagli interventi di salvataggio.
Testi citati nell’articolo
Comito V., Le colpe della Grecia e quelle dell’Europa, www.sbilanciamoci.info, 12 maggio 2010
Ferguson N., Fiscal crises and imperial collapses: historical perspective on current predicaments, Peterson Institute for International Economics, Washington, 13 maggio 2010
Manifeste des économistes atterés, Parigi, 2010
Meyer H., Five ways to solve the eurozone crisis, www.guardian.co.uk, 20 maggio 2011
Munchau W., Soft options are no longer viable options, Financial Times, 30 maggio 2011
The Economist, Why Germany need to change, both for its own sake and for others, 11 maggio 2010
The Economist, Spain’s cry of pain, 28 maggio 2011
Wolf M., Germany eurozone crisis nightmare, www.ft.com, 9 marzo 2010