Il nuovo patto per l’euro indebolisce le ragioni politiche dell’Europa. Le ultime decisioni non bastano a ridare fiato e potere al ruolo pubblico
Gli stati europei non credono all’Europa come soggetto economico e politico per affrontare la crisi economica. L’ultimo vertice degli stati europei ha declinato, ma fortunatamente non ancora approvato, il nuovo patto per l’euro, sviluppando un insieme di misure e provvedimenti che indeboliscono la ragioni politiche dell’Europa. Mentre il mercato non è stato capace di autoregolamentarsi sulla base dei suoi “principi” costitutivi, cioè l’equilibrio tra domanda e offerta, l’Europa sceglie il mercato come strumento per risolvere la propria crisi. Tutte le misure e gli obiettivi, cioè competitività, occupazione, sostenibilità dei bilanci pubblici e stabilizzazione del mercato finanziario, sono declinati in più mercato. La competitività, che trova nella formazione e nella spesa in ricerca e sviluppo un obiettivo di interesse generale, si declina in più liberalizzazioni e approfondimento del mercato. Come base di riferimento della competitività si sceglie il costo unitario del lavoro e la coerenza dei salari con la crescita della produttività, assieme alla bilancia commerciale, come se la produttività e il costo del lavoro fossero una variabile indipendente dal che cosa si produce. Sfugge che possono coesistere alti salari, alta produttività e basso costo unitario del lavoro. Infatti, il costo del lavoro cattura la competitività di prezzo, mentre la ricerca industriale cattura la competitività di lungo periodo. Soprattutto quest’ultima competitività non è mai a somma zero, perché permette di allagare il mercato di beni e servizi. Da questo lato è importante il modello di P. Leon che utilizza la curva di Engel per analizzare l’impatto economico e industriale della crescita del pil1: la crescita del pil presuppone un mutamento della domanda e dell’offerta di beni e servizi. Invece di guidare questo difficile processo, l’Europa alimenta il ritiro della mano pubblica proprio quando sarebbe più necessaria. Gli obiettivi di politica energetica, in particolare quelli relativi alla green economy, strettamente legati all’innovazione tecnologica e alla ricerca e sviluppo, necessitano di un soggetto pubblico adeguato dal lato dell’offerta e dal lato della domanda. Sostanzialmente l’impatto di queste nuove tecnologie è disequilibratore (Shumpeter), e solo un approccio di sistema (pubblico e privato) può governare la transizione.
Rinunciando al ruolo tipico del soggetto pubblico, l’Europa re-inventa la contrattazione del lavoro e costruisce un modello di crescita dell’occupazione interamente fondato sulla bassa tassazione del lavoro e la flexicurity. Nonostante l’esperienza dei paesi emergenti BRIC, per non parlare di alcuni stati europei, al crescere della competitività tecnologica si osserva una crescita dei redditi e dell’occupazione, allargando le opportunità di mercato per tutti i competitors, l’Europa misura la competitività in costo del lavoro e coerenza dello stesso con la produttività. In qualche modo rinuncia a modificare la specializzazione produttiva, abbracciando come orizzonte solo la competitività di prezzo. Un orizzonte che non dovrebbe appartenere all’Europa e in misura più significativa agli stati che sostengono questi provvedimenti, ma che per ragioni politiche di breve periodo vogliono imporre a tutti gli stati europei. Inoltre, le politiche pubbliche sarebbero soggette a vincoli sempre più stringenti, anche legali se volontariamente gli stati decidessero di “costituzionalizzare” detti vincoli. Un conto è adeguare la spesa pensionistica alla dinamica demografica, che potrebbe anche voler dire un aumento della spesa, un altro conto è la stabilizzazione della spesa all’aumentare della popolazione che dovrebbe beneficiare di questa spesa.
Sostanzialmente l’Europa non è capace di occuparsi di se stessa. Il rafforzamento dell’Esm (European Stability Mechanism), che sostituirà l’Efsf (European Financial Stability Facility), con 500 mld di euro per sostenere le economie degli stati membri qualora fosse a rischio l’euro potrebbe essere una opportunità. La possibilità da parte dell’Esf di comprare titoli pubblici sul mercato primario, comunque a certe condizioni, è una novità. Ma l’aggancio ai criteri del Fmi per concedere i prestiti agli stati, e la rinuncia ad una politica economica all’altezza della crisi, sono un vincolo che potrebbe forse affossare il progetto europeo immaginato da Altiero Spinelli e da Delors in anni più recenti.
1 P. Leon, 1967, “Structural Change and Growth in Capitalism”, ed. Johns Hopkins