Le nuove regole per le banche a regime nel 2019: tempi biblici, per una finanza che si muove invece velocissima. Mentre nessun passo in avanti si fa sulla separazione tra banche e speculazione, e su una nuova concezione del “rischio”
A settembre del 2007 le immagini dei clienti della Northern Rock che facevano la fila, muniti di tende e sacchi a pelo, davanti alle filiali della banca inglese fecero il giro del mondo. Giusto un anno dopo la Lehman Brothers depositava istanza di fallimento, quello che è probabilmente stato il momento più critico della crisi finanziaria.
Ci sono voluti altri due anni per arrivare, pochi giorni fa, all’accordo raggiunto dal Comitato di Basilea su quelle che dovranno essere le nuove regole per il settore bancario. Parliamo dell’accordo di Basilea III, che dovrà sostituire quello di Basilea II e definire, in parole semplici, quanto rischio possono assumersi le banche e quanto capitale proprio devono tenere da parte per i loro prestiti e le loro operazioni.
L’intesa raggiunta prevede che le nuove richieste sul capitale proprio delle banche dovranno entrare a regime nel 2019. Nove anni da oggi. Dodici dallo scoppio della crisi. Una data da fantascienza, considerando la velocità con cui si muove la finanza e il rischio di nuove crisi. Dodici anni fa, molti degli strumenti più speculativi e oggi criticati per il loro ruolo nella crisi – dai Credit Default Swaps alle Collateralized Debt Obligations (Cds e Cdo, per le traduzioni si veda il glossario della crisi) non erano ancora nati, o nel migliore dei casi il loro ruolo era del tutto marginale. Quale sarà il volto e gli strumenti a disposizione della finanza tra nove anni? Quale validità potranno avere le regole approvate oggi?
Se i tempi di questa riforma destano forti critiche, i contenuti sembrano altrettanto poveri. Il cuore dell’accordo di Basilea è la definizione di capitale proprio, quello che le banche devono tenere da parte per ogni operazione finanziaria, in modo da non mettere a rischio la loro stabilità e i soldi dei clienti. In termini non rigorosi, il capitale ammesso è di due tipi: il primo (Tier 1) è quello più direttamente a disposizione della banca, quale il capitale sociale e gli utili non distribuiti, il secondo (Tier 2), comprende altre forme di capitale che la banca può utilizzare per coprire con risorse proprie i prestiti che dovessero andare male.
Durante la crisi, il valore delle azioni di molte banche è crollato, così come i profitti. Questo significa una netta diminuzione del capitale proprio, nel momento in cui le banche ne avrebbero avuto maggiore bisogno. Basilea III avrebbe dovuto risolvere tali problemi, sia migliorando la qualità dei capitali Tier1 e Tier2, sia chiedendo alle banche di creare dei buffer anti-ciclici, ovvero dei cuscinetti di capitale da costituire nei momenti di prosperità per averli a disposizione in quelli di crisi.
Se tale cuscinetto è stato effettivamente previsto da Basilea III, colpisce come la definizione di capitale, e del Tier1 in particolare, quello che dovrebbe essere di “migliore qualità”, permetta di ricomprendere alcune partite contabili come le partecipazioni di minoranza in imprese controllate e alcune poste di natura fiscale. Il rischio è che, da qui al 2019, le banche e il sistema finanziario abbiano tutto il tempo per trovare le contromisure per aggiustare i propri conti e aggirare eventuali maggiori oneri.
Questo è vero in primo luogo per le banche di maggiori dimensioni, che tramite le cartolarizzazioni e altre operazioni finanziarie sofisticate quanto poco trasparenti sono in grado di portare fuori bilancio gran parte delle loro operazioni, di “giostrare” con i coefficienti di capitale e di applicare un proprio modello per calcolare il rischio che devono affrontare. Tra l’altro il nuovo accordo non affronta in nessun modo il problema della separazione tra banche commerciali e banche di investimento, né la dimensione eccessiva di alcuni istituti – quelli “too big to fail”, ovvero troppo grandi per essere lasciati fallire senza il rischio di un crollo generalizzato dell’intero sistema.
All’estremo opposto, da tempo il mondo della finanza etica denuncia come le attuali regole penalizzino pesantemente le banche che operano nell’economia reale, e quelle eticamente orientate in particolare. Per fare un esempio, tutte le imprese, dalle cooperative sociali in poi, che operano nel mondo del non profit sono invariabilmente considerate a rischio massimo. Questo significa mettere dei paletti e dei vincoli molto severi all’economia sociale, mentre strumenti estremamente speculativi e rischiosi sono sottoposti a una regolamentazione blanda o nulla.
Alcune proposte potrebbero essere avanzate. Una tra tutte. Perché non tenere conto, nella definizione del rischio di ogni prestito, anche della categoria merceologica e della finalità del prestito? Minori vincoli, in termini di capitali propri delle banche, per finanziare le energie rinnovabili, maggiori per petrolio e carbone, ancora più alti per le banche che insistono nel sostenere la speculazione. Il disastro della BP nel Golfo del Messico dimostra come il tenere in considerazione il rischio ambientale potrebbe rivelarsi fondamentale anche da un punto di vista economico.
Oltre a una più attenta valutazione del rischio bancario, si tratterebbe di uno strumento concreto per instradare l’economia su un percorso di maggiore sostenibilità e rilanciare in maniera concreta la tanto sbandierata “green economy“. Il tutto a costo zero per le casse pubbliche.
Il G20 di Seoul a novembre è chiamato ad approvare l’accordo raggiunto dal Comitato di Basilea. Toccherà poi alle istituzioni nazionali e all’Unione Europea tradurre le raccomandazioni del Comitato in norme vincolanti per le banche. Lo spazio politico per agire c’è ancora, ma occorre muoversi subito per evitare che l’accordo di Basilea III rappresenti l’ennesima occasione persa e per indirizzare l’economia e la finanza su una direzione radicalmente diversa da quella che ha portato al disastro degli ultimi anni.