Adesso anche l’Europa ha i suoi subprime: l’esposizione delle sue banche oltre il confine orientale. Ma non corre ai ripari, e decide di non decidere
“…non dobbiamo mai sottovalutare la capacità delle banche di perdere del denaro…” T. Jackson, The Financial Times, 23 febbraio 2009 “…quando le imprese sbandierano le mappe delle loro conquiste, di solito arrivano i guai…”The Economist, 21 febbraio 2009Le notizie di queste ultime settimane sembrano mostrare delle prospettive sempre più nere per l’economia mondiale. In pochi giorni abbiamo appreso che nell’ultimo trimestre del 2008 l’economia americana si è contratta del 6,2% su base annua, che la produzione industriale e le esportazioni giapponesi sono al collasso e che, infine, l’economia dei paesi dell’Europa Centrale ed Orientale ha bisogno di una cura molto drastica. C’è a questo proposito da considerare, come scrive L. Elliott (Elliott, 2009) che ci sono due tipi di crisi economiche: quelle che cominciano in periferia e si diffondono poi verso il centro e quelle che si manifestano prima al centro e poi si diffondono verso la periferia. Ora, quella dell’Europa dell’Est appare molto grave anche perché presenta ambedue i tipi di difficoltà. La crisi è arrivata nell’area dal centro, ma ora minaccia seriamente di contagiare l’ Europa Occidentale, già nei guai per suo conto.Già in un precedente articolo, pubblicato nel novembre 2008 su questo stesso sito, sottolineavamo come le banche dell’Europa Occidentale avessero prestato nel recente passato una montagna di denaro ai paesi dell’Europa Centrale ed Orientale – per circa 1,5 trilioni di dollari – e come, con la crisi ora galoppante in quell’area, si potesse temere che una parte molto consistente di tali risorse non avrebbe più rivisto la strada di casa. L’economia di quelle regioni, dopo la caduta del comunismo e dopo le forti difficoltà che ne erano seguite e che si erano protratte per un rilevante numero di anni, aveva preso poi a crescere a tassi annuali sostenuti, sia pure con delle differenze da paese a paese. Oggi si scopre che tale fenomeno era basato, per una gran parte, come già accennato, sul debito e che l’area non è in grado di fare fronte agli impegni. La situazione sta diventando drammatica anche per l’Europa nel suo complesso e i debiti dell’est potrebbero diventare i nostri subprime –o forse la nostra Cernobyl.Il cuore del problemaIn linea di principio, fare debiti può essere un fatto anche positivo: dipende molto da quanto tali debiti costano, da quanti se ne fanno complessivamente, da quali condizioni essi comportano e soprattutto da che cosa ci si fa con tali soldi, se essi sono in particolare impiegati in investimenti produttivi in una prospettiva di sviluppo o vengono, invece, giocati al casinò. Per limitarci a questo dopoguerra, ricordiamo, ad esempio, in positivo, come il prodigioso sviluppo giapponese verificatosi tra il 1946 e la fine degli anni ottanta si sia basato proprio sull’ immissione da parte delle banche di enormi risorse nei grandi gruppi del paese; analogamente, la forte e positiva espansione del sistema delle grandi imprese francesi, la sua internazionalizzazione, a partire dalla fine degli anni sessanta, sono stati finanziati allo stesso modo.Venendo ora all’oggi, certamente in alcuni casi, come in quello della Repubblica Ceca, il denaro è stato prevalentemente utilizzato per ricostruire e riqualificare l’apparato produttivo, che oggi si presenta sulla carta come probabilmente il migliore e il più avanzato di tutta l’area, riprendendo antiche tradizioni del paese. Ma ora, con la crisi, il mercato per i prodotti dell’industria è, almeno in parte, venuto meno in pochi mesi. Peraltro, in altre aree, come nelle repubbliche baltiche ed in particolare in Lituania, la situazione appare più grave, essendo le risorse invece soprattutto servite ad alimentare un boom edilizio selvaggio e pletoriche iniziative nel settore dei servizi non qualificati. In diversi casi si ha poi, in sostanza, la netta sensazione che almeno alcuni di questi paesi siano vissuti, ed anche bene, per diversi anni semplicemente consumando i soldi delle banche europee. Si aggiunga come nota finale il fatto che molte imprese, ma soprattutto molti privati in diversi paesi, come al solito consigliati dalle banche, si sono indebitati in valuta estera –prevalentemente in franchi svizzeri, ma anche in euro, in yen ed in dollari–, perché tali prestiti sembravano costare poco a livello di tassi di interesse. Nel caso della Lituania siamo addirittura al 90% del totale. Le banche locali ne hanno anche, come al solito, approfittato per fornire ai clienti la valuta estera a prezzi da strozzinaggio. Ora il crollo di diverse monete nazionali sta portando il dramma in molte famiglie.I segni della crisi non sono in questo momento certamente pochi: si registrano contemporaneamente una fuga dei capitali dall’area e una forte caduta del livello dei prestiti finanziari – i flussi netti di capitale privato alla regione dovrebbero scendere dai 254 miliardi di dollari del 2008 ai 30 miliardi del 2009 (RGE monitor, 2009) -, una parallela e già citata riduzione del valore delle monete nazionali e di quella delle borse, un declino nella produzione industriale, un deficit crescente delle partite correnti – dopo che lo sviluppo dell’economia dell’area si era basata in molti casi soprattutto sulle esportazioni verso la zona euro-, un aumento nei livelli della disoccupazione e una valanga di debiti scaduti e non pagati. In alcuni casi non siamo più di fronte a dei semplici fenomeni recessivi, ma ci stiamo dirigendo verso una vera e propria situazione di depressione, come ad esempio per quanto riguarda la Lituania, l’Estonia, l’Ucraina. I paesi dell’area, messi insieme, dovrebbero restituire a breve termine, secondo qualche fonte, più di 400 miliardi di dollari di debiti in scadenza (Bilefsky, 2009), che essi chiaramente non hanno a disposizione. Secondo il primo ministro ungherese sarebbe necessario un programma di stabilizzazione ed integrazione per l’area da 230 miliardi di dollari (Lex, 2009).In ogni caso la crisi rischia ora, tra l’altro, di aumentare il divario tra i paesi più ricchi dell’area, quali la Repubblica Ceca, la Slovacchia e in parte almeno la Polonia e quelli messi peggio, tra i quali appunto i paesi baltici, l’Ungheria, la Croazia, la Romania, quelli balcanici (Bilefsky, 2009). Va ricordata anche la potenziale differenza di prospettive che si possono riscontrare tra i paesi già inseriti nell’Unione Europea e quelli che non lo sono. Più in generale, il reddito medio per abitante era nel 2008 pari all’incirca a 7600 dollari in Ucraina e a 28.900 in Slovenia (The Economist, 2009), quindi con grandi differenziazioni da paese a paese. Peraltro, il possibile default di un’economia potrebbe avere come conseguenza, per come funzionano i mercati finanziari e per le potenziali risposte degli investitori, quello di tutta l’area.Ma chi ha prestato questa montagna di soldi alla regione? In primissima fila stanno le banche austriache, che hanno fatto credito all’est per una somma totale di poco inferiore ai 300 miliardi di dollari – una cifra pari all’incirca all’80% del pil del paese-; il paese è tradizionalmente il ponte dell’ovest verso l’area, ma ora il ponte sta forse per crollare. Vengono poi quelle svedesi –che hanno soprattutto prestato ai vicini paesi baltici-, quelle belghe, tedesche, italiane- queste ultime lo hanno fatto in gran parte tramite le loro consociate austriache e tedesche. L’Italia, come la stessa Germania, ha prestato circa 220 miliardi di dollari. Per quanto riguarda più in generale le nostre banche, alla fine del settembre 2008, per l’Unicredit i prestiti nei paesi dell’Europa Centrale ed Orientale rappresentavano il 14% dei suoi crediti totali, il 25% dei ricavi e il 44% dei profitti prima delle tasse. Per quanto riguarda invece IntesaSanpaolo, meno esposta, si trattava dell’8% dei prestiti e del 12% dei ricavi e dei profitti prima delle tasse (Boland, 2009). Qualcuno afferma paradossalmente che i paesi ora in crisi hanno fatto una sola cosa giusta, quella di affidare il loro sistema bancario quasi interamente nelle mani dei paesi dell’Europa Occidentale (Munchau, 2009). In effetti, la quota di mercato degli istituti stranieri nel settore è oggi pari al 60-90% del totale secondo i paesi (RGE Monitor, 2009). Ma questo significa anche che la crisi dell’Europa Centrale ed Orientale è un evento che tocca in profondità la zona euro e che, se le difficoltà si faranno più drammatiche, il prezzo dovrà essere pagato dell’Ue. Nel frattempo, comunque, le notizie dei guai ad oriente hanno contribuito alla riduzione del valore dell’euro. Va peraltro tenuto in considerazione il fatto che le banche occidentali, di fronte alle difficoltà che si manifestano anche in patria, potrebbero essere tentate di ritirare in tutto o in parte le risorse dalla regione, in una sorta di spinta al protezionismo finanziario, fenomeno che tende ormai a mostrare il suo volto in diverse aree del mondo.
Neoliberismo, agenzie di rating, Fondo Monetario Internazionale
Diversi tra tali paesi – in Particolare la Polonia, l’Estonia, la Repubblica Ceca- continuano intanto, nonostante l’incalzare della crisi, nelle loro dementi politiche neoliberiste; così nella repubblica ceca il governo si rifiuta di intervenire in alcun modo per dare sostegno alle migliaia di lavoratori che la crisi di interi settori industriali sta mettendo sul lastrico. Ne fanno prevalentemente le spese, comunque, per il momento, gli stranieri. La situazione sociale dovrebbe nei prossimi mesi aggravarsi con il rientro progressivo di una parte almeno dei lavoratori che erano emigrati alla ricerca di un’occupazione nei paesi dell’Europa Occidentale. Ma le difficoltà in atto dovrebbero ormai suonare inevitabilmente la fine del ciclo liberista anche nell’area. Peraltro, va ricordato che negli ultimi quindici anni i paesi orientali non hanno fatto altro che applicare alla lettera le ricette che venivano loro propinate dalle istituzioni occidentali e oggi si sentono peraltro dire che tali ricette erano sbagliate (Wagstyl, 2009).
Nel frattempo le agenzie di rating, senza alcuna vergogna per quello che hanno fatto negli ultimi anni e forse anche loro stesse meravigliate che la gente continui a prenderle sul serio, seguendo sino in fondo, come fanno da sempre, gli interessi statunitensi, ne stanno approfittando per cercare di spaccare l’Europa e di far crollare l’euro; esse, mentre tagliano i rating a diversi paesi dell’Europa Occidentale e minacciano di farlo ad altri, ora sguazzano nella situazione dell’Europa Centrale ed Orientale.
Intanto, il Fondo Monetario Internazionale cerca, con le scarse risorse a disposizione – per i suoi programmi di salvataggio a livello globale avrebbe bisogno di 1000 miliardi di dollari, di fronte ad un fondo di 250 miliardi, in parte già utilizzato-, di correre al soccorso delle economie dell’area, ma senza togliersi il vizietto di imporre in contropartita le solite politiche neoliberiste, imponendo privatizzazioni, tagli di bilancio, riduzioni nei salari del settore pubblico, dolorose ristrutturazioni dell’apparato produttivo, liberalizzazioni.
ConclusioniIl momento appare cruciale per l’Unione europea, sottoposta contemporaneamente a due colpi micidiali, uno da ovest ed uno da est –con gli americani che ci hanno scaricato addosso all’incirca la metà dei loro titoli tossici e con l’Europa Centrale ed Orientale che ci regala ora tutti i suoi problemi finanziari. La crisi potrebbe essere così o l’occasione per un colpo di reni e per una forte spinta verso un riavvio del processo di riunificazione politica, finanziaria, sociale del continente, o, invece, verso una decomposizione almeno parziale dei legami già esistenti. In ogni caso, l’Unione Europea appare obbligata ad intervenire rapidamente per evitare che il caos finanziario si diffonda attraverso il continente. Un commentatore (Munchau, 2009) ha suggerito di accelerare l’ingresso di almeno alcuni paesi dell’area nella zona euro, quali la Repubblica Ceca, la Polonia, l’Ungheria, la Romania, allentando i criteri di scrutinio all’ingresso; ma questa mossa potrebbe, d’altro canto, forse indebolire l’euro. Parecchio si potrebbe anche fare attraverso l’intervento congiunto della Bei e della Bers (Taylor, 2009), nonché attraverso quello del FMI e della Banca Mondiale, della banca centrale europea, nonché dei fondi strutturali della Commissione e degli stessi governi dell’Europa dell’Ovest e dell’Est. Ma servono in ogni caso molti soldi. La Bei, la Bers e la Banca Mondiale hanno a questo proposito annunciato che metteranno a disposizione circa 31 miliardi di dollari per sostenere le banche e le imprese della regione (Davis, 2009), somma rilevante ma largamente insufficiente rispetto alle necessità. Alla fine, il nodo della questione appare forse quello del possibile intervento finanziario della Germania, potenziale lender of last resort della regione, che costituisce in gran parte il suo cortile di casa; a suo tempo essa aveva sponsorizzato con forza l’allargamento ad est dell’Unione Europea. Il paese avrebbe i mezzi per farlo e d’altra parte essa probabilmente sa che, alla fine, sia pure con moltissima riluttanza, sarà obbligata ad intervenire perché, se non lo facesse davanti ad un aggravarsi della crisi, il costo sarebbe poi più alto se un paese dichiarasse la sua insolvenza. La Germania, essa stessa peraltro in difficoltà, potrebbe così tendere comunque a diventare, grazie alla crisi, il vero, anche se certo non entusiasta, padrone dell’area e forse del continente.Peraltro, il summit europeo del primo marzo ha deciso per il momento di non decidere, ciò che non potrà che aggravare poi i costi dell’inevitabile e più tardivo intervento.Testi di riferimento-Bilefsky D., A crisis is separating Eastern Europe’s strong from its weak, www.nyt.com, 24 febbraio 2009-Boland V., UniCredit and Intesa left with expansion headache, The Financial Times, 24 febbraio 2009-Davis B., Banks move to free up Eastern Europe lending, The Wall Street Journal, 27 febbraio 2009-Elliott L., The east freezes when the west catches cold, www.guardian.co.uk, 2 marzo 2009 -Lex, Aid for Eastern Europe, The Financial Times, 27 febbraio 2009 -Munchau W., Eastern crisis that could wreck the eurozone, The Financial Times, 23 febbraio 2009-RGE Monitor’s Newsletter, 25 febbraio 2009 -Taylor P., Bank pulled in too many directions, The International Herald Tribune, 24 febbraio 2009-The Economist, The whiff of contagion, 26 febbraio 2009-Wagstyl S., Variable vulnerability, The Financial Times, 26 febbraio 2009
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