Milioni di lavoratori in Italia svolgono con dedizione il proprio lavoro, diventato poverissimo non per volontà loro. Affrontare questo nodo sociale richiede riforme istituzionali che affrontino per legge la regolazione della rappresentanza per dare forza alla contrattazione collettiva e crescita ai salari.
Restano divergenti le posizioni del governo di centro-destra di Giorgia Meloni e le opposizioni dopo l’ultimo incontro tenutosi prima della pausa estiva, e che ha contrassegnato un faccia a faccia sul salario minimo, uno dei temi attualmente più caldi e al centro della discussione politica (e non solo) sul lavoro povero in Italia.
Il dibattito sul salario minimo non riguarda soltanto l’Italia ma l’Europa tutta. Nel Novembre 2022, il Parlamento Europeo ha approvato a maggioranza la Direttiva europea che prevede l’introduzione del salario minimo legale e il rafforzamento della contrattazione collettiva come possibile soluzione al lavoro povero in Europa. Questo dimostra che il lavoro povero non è un fenomeno esclusivamente italiano. Tuttavia in Italia il fenomeno della povertà lavorativa incide di più che negli altri Stati europei. Secondo dati Eurostat del 2021, l’11,7% dei lavoratori italiani è considerato povero, una percentuale rimasta stabile dal 2019, e che contrasta la media europea del 9,2%. Secondo l’Istat questa percentuale corrisponde a quasi 2,6 milioni di lavoratori occupati poveri, una percentuale che colpisce il lavoratore dipendente, soprattutto con lavori non-standard, tanto quanto quello autonomo. Quali sono le cause della povertà lavorativa in Italia?
Una delle cause principali è la caduta dei salari reali (che corrispondono alla quantità di beni che il lavoratore può acquistare con la sua paga). La stagnazione salariale affligge il nostro paese da decenni ed è anche letta attraverso la specificità della composizione della forza lavoro occupata nel nostro paese, la quale – a differenza di altre principali economie europee come ad esempio Germania e Francia – si caratterizza per una maggiore partecipazione dei segmenti meno qualificati e per una ridotta presenza delle professioni più qualificate. Uno studio della Fondazione de Vittorio mette in rilievo come nonostante l’analisi dei dati relativi al 2021 rispetto al 2020 indichi un aumento del salario lordo annuale medio più marcato in Italia rispetto ad altri paesi dell’Eurozona, questo non si traduce in un miglioramento della situazione relativa ai salari in Italia. Il leggero miglioramento riflette una situazione alquanto normale, anche perché nel primo anno della pandemia l’Italia aveva sofferto la maggiore diminuzione. Quindi, pur osservando un recupero rispetto al 2020, se si confronta il salario lordo annuale medio del 2021 con quello del 2019 risulta come il divario salariale tra Italia, da una parte, e Francia e Germania, dall’altra, si sia ulteriormente ampliato; secondo questi stessi dati la differenza con il salario francese è aumentata da -9,8 mila a -10,7 mila e con quello tedesco è cresciuta da -13,9 mila a -15,0 mila euro (vedi Tabella 1)
La scarsa crescita dei salari reali – nonostante la contrattazione collettiva nei settori a qualifica medio-bassa – ha innescato una lenta dinamica delle retribuzioni nominali per ora lavorata. Il risultato è che le famiglie più povere, con salari bassi, sono state le più colpite dall’onda di inflazione che ha visto un aumento vertiginoso dei prezzi di energia e prodotti di prima necessità, tra i quali quelli alimentari in Italia.
Questo, però, non è successo in maniera così drammatica dappertutto. Economie europee diverse, caratterizzate da un sistema di indicizzazione automatica dei salari (la famosa scala mobile) e una forte contrattazione collettiva inter-settoriale e settoriale, la cui applicabilità è regolata per legge, hanno retto abbastanza bene lo tsunami causato dall’aumento dei prezzi al consumo che ha afflitto l’Europa. In Belgio, ad esempio, l’estensione della contrattazione collettiva è praticamente automatica e le norme vincolanti in materia di salario minimo (o massimo) – oppure incrementi salariali – sono emesse a seguito di una contrattazione centralizzata da parte delle rappresentanze sindacali e datoriali, con o senza il coinvolgimento del governo. Seppure il governo può unilateralmente, con o senza previa consultazione e negoziazioni con sindacati e/o le associazioni datoriali, far sentire il suo parere a riguardo, di fatto l’esistenza di una rappresentanza forte, soprattutto da parte sindacale, evita che tutto questo possa succedere. Il risultato è il mantenimento della validità dei contenuti generali della contrattazione salariale e il rispetto dei contenuti normativi dei contratti.
Allo stesso tempo, l’incremento dei salari non ha causato una spirale inflazionistica in Belgio. E’ noto in economia (si veda, ad esempio, Arce Itskhoki e Konings, 2023) che se imprese e lavoratori aumentano ripetutamente profitti e salari in linea con l’inflazione, ciò potrebbe portare a una spirale al rialzo dei prezzi. Per tenere sotto controllo l’inflazione, i profitti e/oi salari dovrebbero aumentare a un tasso inferiore rispetto agli aumenti complessivi dei prezzi e almeno una delle parti deve essere disposta ad accettare un calo del potere d’acquisto. In Belgio, come sopra spiegato i salari sono automaticamente indicizzati per legge. In assenza di un aumento significativo della disoccupazione, pertanto, i salari reali non possono essere ridotti per abbattere l’inflazione e aumenta il rischio di una spirale salari-prezzi e/o profitti-prezzi. Tuttavia, un recente studio di Bijnens, Duprez e Jonckheere (2023) “L’avidità e il rapido aumento dei salari hanno innescato una spirale profitto-salario-prezzo? Prove a livello di impresa per il Belgio” commissionate dalla Banca nazionale del Belgio dimostra che anche in un paese con l’indicizzazione salariale automatica, le dinamiche profitto-salario non hanno alimentato gli aumenti dei prezzi nel 2022. Gli aumenti dei prezzi nel 2022 sono stati trainati principalmente dall’aumento dei prezzi dei fattori di produzione, suggerendo che gli shock iniziali dei prezzi all’importazione si sono gradualmente diffusi a tutti i settori.
Contrariamente a quanto si se ne possa dire, quindi, l’Italia necessita un intervento istituzionale forte di revisione della legge sulla rappresentanza che dia respiro e forza alla contrattazione collettiva e pertanto offra un piano di crescita ai salari. Il rafforzamento della contrattazione collettiva si regge su una riforma seria della rappresentanza che possa restituire validità al contenuto dei contratti nazionali, combattendo i ‘contatti pirata’. Il governo Meloni si dice desideroso di combattere il lavoro povero attraverso il sostegno alla contrattazione ma meno convinto di farlo attraverso lo strumento del salario minimo. Tuttavia, il confronto con sistemi di relazioni industriali in altri paesi europei dimostra che se è vero che salario minimo potrebbe significare indebolimento della contrattazione collettiva, è altrettanto vero che la contrattazione collettiva rischierebbe in qualche modo di perdere forza in un contesto dove la rappresentanza è debole, come in Italia. Ecco perché è importante parlare di salario minimo.
Milioni di lavoratori in Italia svolgono con dedizione il proprio lavoro, diventato poverissimo non per volontà loro. Affrontare questo nodo sociale importantissimo richiede riforme istituzionali che affrontino per legge la regolazione della rappresentanza per dare forza alla contrattazione collettiva e respiro di crescita ai salari.