Il vortice delle banche d’affari americane, un tempo trionfanti e in pochi giorni fallite, inglobate, trasformate. Il gran ballo dei loro vertici, in stretta triangolazione con governi e istituzioni di controllo. Il ritorno dell’intervento pubblico per salvare la finanza da se stessa. Il racconto del crollo delle nostre piramidi, in sette punti
1.Uno dei punti di precipitazione dei “dieci giorni che sconvolsero la finanza” è stato il discorso del presidente degli Stati Uniti George W. Bush tenuto alla Casa bianca il 19 settembre. E’ stato Il Sole 24 Ore a proporre questo nome, citando forse consapevolmente John Reed e la rivoluzione d’ottobre (v. l’inserto pubblicato domenica 21 settembre). Vari passaggi del discorso di Bush sono importanti, ma ora ne ricordiamo solo l’esordio. Il presidente ha cominciato così: “Buon giorno. Ringrazio il segretario al Tesoro Hank Paulson, il presidente della Federal Riserve Ben Bernanke e il presidente della Sec Chris Cox per avermi accompagnato oggi”. (http://www.upi.com/Top_News/2008/09/19/Bushs_statement_on_financial_markets/UPI-18451221855514/). Cox, un avvocato, preposto al controllo della Borsa, è stato a lungo rappresentante autorevole dei repubblicani al Congresso. Bernanke nella sua vita precedente era un professore di economia, seguace di Milton Friedman. Paulson invece era il numero uno di Goldman Sachs, tra le principali banche d’affari, quando è salito, o sceso, al governo Usa. Le lobby politiche di Washington, l’accademia degli economisti liberisti, l’alta finanza delle banche d’affari. Agli occhi di Bush, un trio perfetto. Niente da dire su Cox e Bernanke, anche se altri avrebbe preferito un democratico e un professore keynesiano, sempre che ce ne siano ancora. Ma che dire di Paulson? Almeno che il suo transito al governo nel giugno 2006 è stato troppo repentino, senza il periodo di decantazione che il passaggio da controllato a controllore, da finanziere globale a ministro del Tesoro imporrebbe, in ogni caso e in ogni paese. Anche in Italia, il passaggio, altrettanto affrettato, di Mario Draghi da direttore per l’Europa di Goldman Sachs a governatore della Banca d’Italia, avvenuto sei mesi prima del passaggio di Paulson da Goldman al Tesoro, avrebbe meritato qualche riflessione in più sull’inopportunità di simili cambiamenti di campo. In Italia, in quel cattivo momento, se mai perplessità vi furono, furono rapidamente superate bipartisan, una volta tanto. Erano tutti convinti della pericolosa mancanza di alternative nel momento in cui il Palazzo italiano doveva scegliere in fretta un nuovo governatore, essendosi logorato in modo irrimediabile quello in carica. Oppure Goldman Sachs aveva ormai stregato tutti, tra Roma e Milano?
2. Ma c’è dell’altro su cui riflettere; si può notare la stranezza di un nome che ritorna. La fase acuta della crisi, da luglio in poi, ha visto un primo Paulson, Hank, segretario del Tesoro, che tentava di mantenere il controllo dei mercati finanziari, di arginare il crollo dei subprime e di riparare la bolla immobiliare a furia di dichiarazioni e di moral suasion. Ma c’era anche un altro Paulson, John, che invece faceva di tutto per mandare a rotoli il mercato dei subprime. Come si può leggere in un’intervista a John Paulson da parte di Die Zeit (Kerstin Kohlenberg, “I padroni del mondo”, Internazionale 19/25settembre 2008) il fatto era che l’hedge fund con il suo stesso nome, uno dei più importanti e spregiudicati, aveva venduto subprime a più non posso e allo scoperto per tutto l’anno precedente. Paulson aveva anche minacciato di rivolgersi ai tribunali contro la Bear Stearns che aveva cominciato a comprare case per sostenere il mercato. Un simile comportamento non corrisponderebbe secondo lui al libero mercato che invece accetta “un predatore che difende la sua preda e aggredisce chiunque tenti di strappargliene anche solo un pezzettino”. Paulson che aveva finito per guadagnare molte decine di miliardi di dollari, come fondo e in persona, si era fatto le ossa proprio alla Bear Stearns, la banca d’affari scoppiata per la prima e acquistata con fortissimi sconti e insoliti prestiti federali dalla banca JPMorgan Chase in marzo. A spalleggiare Paulson (John) nel suo attacco al sistema era anche arrivato come consulente, prima nascosto e poi scoperto, Alan Greenspan, predecessore di Bernanke alla Fed. In questo caso non era stato un passaggio immediato: Greenspan era transitato per la principale banca tedesca Deutsche Bank. A prima vista, quello dei banchieri potenti, degli impareggiabili finanzieri, dei consulenti dalle formidabili parcelle sembra un comportamento degno delle grandi stelle di Hollywood, ai tempi gloriosi: divorzio, matrimonio, divorzio, flirt: e via ai pettegolezzi che equivalgono ad altrettanta pubblicità. Solo che i banchieri e gli altri del giro sono quelli che fanno anche le regole, costringono il popolino ad accettarle e poi le cambiano senza dirlo, a differenza di quanto avveniva nel cinema dove genio e sregolatezza se non la regola, era almeno un’usanza, considerata possibile ma solo “per gli artisti” e in parte tollerata per far prosperare i giornali specializzati.
3. Ma torniamo a Bush. Un passo molto significativo del suo discorso è il seguente: “Il nostro sistema di libera impresa si basa sul convincimento che il governo federale possa ingerirsi nel mercato solo quando è necessario. Dato l’odierna precarietà dei mercati finanziari e la loro importanza vitale per la vita quotidiana del popolo americano, l’intervento del governo non è solo autorizzato, è indispensabile”.
Con il dovuto rispetto per il presidente, il popolo americano era in ottima salute quando dei mercati finanziari non aveva ancora sentito parlare. Alle sue spalle i mercati finanziari sono gonfiati e sono diventati pericolosi. La loro piena potrebbe fare enormi danni. I mercati finanziari non sono un valore in sé, ma uno strumento per rendere fluida la circolazione dei capitali. Servono canali e dighe, regole insomma, per contenere capitali che si muovono impetuosamente. Ogni volta che le regole vengono aggirate, si confondono i ruoli di controllori e controllati, il rischio si moltiplica. Nel caso di Bush il rischio considerato peggiore è quello di finire in mano ai “comunisti”, espressione multiuso che comprende ogni forma di intervento pubblico. Nel caso dei subprime della bolla immobiliare, l’intervento pubblico è gigantesco e Paulson lo calcola in 700, forse mille miliardi di dollari. Altri in duemila. “Queste misure ci obbligheranno di mettere in campo una notevole quantità di dollari dei contribuenti. Questa azione comporta un rischio, ma riteniamo che alla fine questo denaro sarà restituito”. Paulson che guida l’affare è colui che ha provocato il crollo di Fannie Mae e Freddie Mac, le due società di riassicurazione dei mutui, quando il 10 agosto a Pechino (a Pechino!) aveva dichiarato “Non abbiamo in programma di investire denaro in queste due istituzioni” (Mario Margiocco, “Diario di un crack e dei suoi segreti”, Il Sole 24 Ore, citato). Per poi tornare sui suoi passi, dichiararne la nazionalizzazione e versare a ognuna delle due società 100 miliardi di dollari.
Ma serve un giro tanto complicato, che passi per le banche?, si chiedono i contribuenti e premono sui loro rappresentanti al Congresso che devono approvare misure statal-comuniste. Non si farebbe prima a ridarli direttamente a noi, quei 700 miliardi e non pensarci più? Tra i contribuenti americani, in internet, devono avere girato storie simili a quella che in edizione francese è in www.rue89.com, e che spiegano gli avvenimenti e le cause più di cento forbitissimi articoli. A proposito delle cause di quello che è avvenuto, avviene e avverrà, Bush la sa lunga “Il risultato (dei problemi del credito) è che dobbiamo agire adesso per proteggere la salute economica della nostra nazione da seri rischi. Vi sarà un ampia opportunità di discutere le origini di questo problema. Ora è il momento di risolverlo”.
4. I contribuenti sono di fronte alle loro crescenti difficoltà. La benzina a 4 dollari al gallone ha costretto molte famiglie a cambiare stili di vita. Sapere dei “bonus a 7 cifre” (Andrei Ross Sorkin e Vikas Bajaj, “Radical Shift for Goldman and Morgan”, nyt.com, 22 settembre) percepiti da funzionari di secondo piano non aiuta a sollevare gli spiriti; tanto più se come si sospetta, sono state le case d’affari a spingere il prezzo del petrolio a 150 dollari al barile.
5. “E poi non rimase nessuno” è un romanzo di Agatha Christie che si adatta alla vicenda delle banche d’affari americane, un tempo trionfanti. Erano cinque. Per prima crollò Bear Stearns, annichilita e acquistata da JpMorgan Chase. Poi, una dopo l’altra, in una notte, Merrill Lynch, assorbita da Bofa (Bank of America) e Lehman Brothers, andata in fallimento. Le due rimaste,quelle che hanno fatto il bello e il cattivo tempo anche in Europa, e soprattutto hanno spiegato la natura del mondo per una ventina d’anni, si sono riconvertite a banche commerciali come le altre, anche per mettere le mani sui depositi dei clienti. Saranno loro a ricevere l’aiuto del Tesoro e della Fed, ma già le altre banche che per decenni, dai cinque angoli del mondo, hanno imitato le cinque grandi banche d’affari americane, ora cessate, chiedono che anche i loro debiti sofferenti vengano sostenuti dai contribuenti americani.
6. Si muovono anche i partiti: al Congresso, democratici e repubblicani devono approvare qualcosa che difficilmente apparirà convincente per i loro elettori che li aspettano per il 4 novembre. E gli stessi candidati presidenti sono impazienti. Uno ha undici macchine in garage; l’altro si muove con un jet gigantesco. A questi chiari di luna, appaiono entrambi fuori fase.
7. Avrà cuore la Banca mondiale di raccontare i fastigi dell’alta finanza degli hedge funds, delle banche d’affari, della bolla immobiliare, dei subprime, dei derivati al quadrato, con la precisione e la disinvoltura usata per raccontare le Piramidi albanesi del 1995?