L’accelerazione è un mito – e un obiettivo – del 19° secolo. Oggi, scrive l’ideologo dell’ambientalismo tedesco in questo primo capitolo del libro “Economia della sufficienza, Appunti per resistere all’Antropocene” tradotto da Castelvecchi, serve un diverso approccio sul tempo, anche in economia.
Fino a poco tempo fa, i corridoi della metropolitana di Tokyo sembravano gallerie di carta. Le pareti erano ricoperte di grandi manifesti pubblicitari, con uno strato diverso di immagini e messaggi ogni settimana. Di fronte alla carenza di legno in Giappone, i padri della città decisero di porre fine a questo spreco di carta: in nome della tutela dell’ambiente, sono stati appesi ovunque schermi sulle piattaforme e nelle carrozze, che ora bombardano il pubblico senza sosta con messaggi pubblicitari. Carta risparmiata – problema risolto?
L’aneddoto rappresenta un approccio alla politica ambientale che vorrei chiamare “ecologia dei mezzi”. Schermi al posto della carta, elettronica al posto del consumo di benzina, riciclaggio al posto di una nuova produzione: queste e altre misure simili mirano a ridurre il consumo di natura per unità di prodotto. Si può fare molto: il potenziale dei motori sofisticati, della tecnologia di riciclaggio e dei sistemi è così grande che alcuni inneggiano a una “rivoluzione dell’efficienza”.
In effetti, c’è ancora molta musica, ma uno sguardo freddo all’entità del sollievo effettivamente dovuto alla natura fa sorgere il dubbio che sia saggio ridurre l’ecologia a una gestione efficiente delle risorse. Infatti, la riduzione dei consumi necessaria per organizzare in modo ecologico ed equo l’uso della natura su scala globale è vertiginosa: secondo le regole empiriche attualmente in circolazione, una riduzione del 70-90% del flusso di energia e materiali solo nei prossimi decenni è commisurata alla gravità della situazione. Chiunque creda che un simile obiettivo possa essere raggiunto con un semplice aumento dell’efficienza è uno sciocco ottimista.
Ciò diventa chiaro anche a livello logico, quando ci si rende conto che gli effetti di risparmio vengono inevitabilmente consumati dagli effetti di quantità nel lungo periodo, se non si rallenta la dinamica complessiva dell’aumento delle prestazioni. I motori delle automobili, ad esempio, sono molto più efficienti oggi rispetto a vent’anni fa, ma l’aumento delle auto, della velocità e dei chilometri percorsi ha da tempo annullato i guadagni. I successi della razionalizzazione aiutano nel migliore dei casi a guadagnare tempo, ma a lungo termine sono efficaci solo in una società in decrescita. Herman Daly ha reso l’idea: anche una barca in cui i carichi siano distribuiti in modo efficiente finirà per affondare con l’aumentare del peso totale, per quanto gli occupanti abbiano la soddisfazione di essere affondati in modo ottimale!
Infatti, una società compatibile con l’ambiente può essere affrontata solo su due gambe: attraverso una razionalizzazione intelligente dei mezzi e una saggia limitazione degli obiettivi. In altre parole la “rivoluzione dell’efficienza” rimane cieca se non è accompagnata da una “rivoluzione della sufficienza”. Dopotutto, non c’è nulla di così irrazionale come inseguire la direzione sbagliata con la massima efficienza.
Meno velocità ovvero la scoperta della lentezza
L’accelerazione è diventata la carta vincente nel Diciannovesimo secolo; questo sconvolgimento del senso del tempo in quell’epoca è chiaramente rintracciabile nel linguaggio, questo sismografo di sotterranei cambiamenti di mentalità. Se si fosse parlato di “tempo” del tempo al giovane Bismarck, ad esempio, si sarebbe risposto con incomprensione; al massimo avrebbe pensato alla musica. Per “tempo” si intendeva ‘suonare nella misura di tempo appropriata’, in base al carattere di una composizione. Solo alla fine del secolo il termine “tempo” assunse il significato di ‘alta velocità’: il linguaggio rifletteva che l’ideale di movimento non era più ricercato nella giusta misura di ogni caso, ma uniformemente nella massima velocità possibile.
A cosa abbia reagito questo cambiamento di mentalità lo si può dire chiaramente: all’esplosione della misura organica del movimento dalla ferrovia. Dopotutto la locomotiva aveva eliminato le debolezze della natura organica, avanzando regolare verso le sue destinazioni senza un’ombra di stanchezza, mentre i binari avevano domato il paesaggio, senza essere ostacolati né dalle montagne né dalle valli. Fino a quel momento i cavalli avevano continuato a sfiancarsi e il paesaggio aveva sempre obbligato a salite e discese e deviazioni. Ma con la vittoria delle macchine sui vincoli imposti dalla natura, l’ideale di una velocità illimitata poteva ora realizzarsi. La cinetica, o movimento, è diventata l’etica del Modernismo.
La costruzione di auto è un settore in cui persiste caparbio lo spirito ottocentesco. Vengono offerte “veloci- mobili” in grado di sviluppare una grande accelerazione e alte velocità come se ogni giorno dovessero gareggiare su lunghe distanze in autostrada. Tuttavia un’auto viene usata in media l’80% del tempo nel traffico cittadino, dove la velocità oscilla tra i 10 e 25 km/h. Impiegare perciò “velocimobili” nel traffico urbano è sensato tanto quanto tagliare il burro con una motosega. L’implementazione compulsiva degli ideali del passato ci ha lasciato con una flotta esageratamente sovramotorizzata di auto, con tutte le sue conseguenze in termini di spreco di energia, materiali e dispositivi di sicurezza.
Se perseguita con sufficiente impegno, l’accelerazione si autoeliminerà. Sempre più velocemente si giunge in luoghi in cui si trascorre sempre meno tempo. L’accelerazione rende le persone indifferenti verso il qui e ora. È la nemica della presenza vissuta appieno. Non sorprende, dunque, che emerga un rinnovato interesse verso la lentezza. Sempre più persone sono molto attente e vigili nei confronti del quotidiano. Nell’amore per “il presente” si sta sviluppando un gusto per la rilassatezza.
Se allora è necessario abbandonare delle posizioni già insostenibili per il bene della natura e della giustizia, non sarebbe saggio prendere in considerazione l’idea di auto meno potenti in grado di correre a non più di 100 km/h, per esempio? L’accelerazione derivata dal progresso era figlia del pensiero lineare. In tempi in cui regna però lo scetticismo nei confronti del progresso, la speranza che domani tutto migliori è svanita. Quando il futuro è greve di incertezza, anche il comandamento dell’accelerazione perde di autorità. Una società che si è lasciata alle spalle il Diciannovesimo secolo può nuovamente concedersi maggiore autocontrollo.
Meno distanze ovvero la rinascita dei luoghi
Alla luce della crisi della natura, anche l’utopia che anima l’Europa di Maastricht ha ormai fatto il suo tempo. Le vecchie brame sono ancora vive e vegete: specializzazione, interdipendenza economica, incrementi nell’efficienza, maggiore scelta – in poche parole, rivolte alla crescita e alla ricchezza tramite l’integrazione. Fin da Bretton Woods, il mondo – e l’Europa in particolare a partire dai Tratta- ti di Roma – ha rincorso un’illusione che avrebbe potuto affermarsi solo durante il dorato (ed eccezionale) periodo dell’era postbellica. I miti del passato sbiadiscono insieme all’illusione predominante nella nostra epoca che dichiara come un’economia planetaria sia allo stesso tempo desiderabile e inevitabile.
Tuttavia le ombre si allungano sempre di più. Soprattutto per ragioni politiche. La “competitività internazionale” sta diventando per forza di cose la massima dominante alla quale devono sottomettersi tutti gli altri desideri, quali la solidarietà sociale, la qualità della vita civile o la natura incontaminata. Ma come la democrazia può venir strangolata dall’autoisolamento, allo stesso modo può esser spazzata via dall’esposizione incondizionata. Qualsiasi cosa significhi democrazia, quest’ultima può sopravvivere senza uno spazio per l’autonomia, il diritto di ognuno all’autodeterminazione dei propri interessi, o senza una qualche forma di sovranità?
E poi per ragioni ecologiche. L’integrazione richiede sempre maggiori mezzi di trasporto. Le distanze tra produttore e consumatore (e anche tra consumatore e discarica) stanno aumentando. I fiori dal Kenya e le scarpe da Taiwan ne rappresentano degli esempi ben noti. Non solo: anche le distanze tra i fornitori e i costruttori si stanno moltiplicando. Con “l’approvvigionamento globale” i costruttori di auto acquistano le componenti da tutto il mondo e perfino le parti assemblate di un semplice cartone di yogurt viaggiano per 9.000 km. L’attuale tendenza alla produzione snella allunga le linee di approvvigionamento e di conseguenza le distanze percorse. La cosiddetta “produzione snella” porta così dritta al “trasporto grasso”.
Inoltre, è un segreto di Pulcinella il fatto che spesso il trasporto sia considerato solo in termini economici perché i costi del carburante non tengono conto della penuria reale e, soprattutto, perché le sue filiere sono autorizzate a infischiarsi dei costi sociali. Il numero dei camion a lunga percorrenza aumenta in modo esponenziale perché si dà velatamente per implicito che l’area compresa tra il punto di partenza e la sua destinazione non abbia nessun valore e che possa essere attraversata, cementificata, inquinata a livello acustico e avvelenata a piacere. Prezzi onesti, tasse sulla lunga percorrenza o – perché no? – imposte doganali locali possono aiutare ad accrescere la resistenza dello spazio nei confronti del transito facile. Soltanto un’eco- nomia scarsamente integrata graverà poco sulla natura e sulla giustizia.
Anche in questo caso, ciò che sostiene l’ecologia può venire in aiuto anche alla democrazia. Stringere maggiori legami d’affari a livello regionale genera economie rafforzate localmente e quindi più autonomia a un livello inferiore.
In aggiunta a questo, con la microelettronica e le tecnologie basate sul solare e le biomasse si aprono nuove opportunità per una produzione meno centralizzata che potrebbe plasmare – coniugata a un certo orgoglio postmoderno per la propria patria – un’Europa diversa e variopinta.
Meno mercato ovvero l’ascesa dei beni comuni
Su cosa si basa il benessere di una comunità? Fin dai tempi in cui Adam Smith celebrava il lavoro (la produzione di beni commerciabili) quale fonte della ricchezza nazionale, la comunità, la sfera – insieme alla natura – delle attività non commerciali, è sfuggita all’attenzione degli economisti. Concentrati solo sul PIL, non sono infatti in grado di riconoscere alcuna creazione di valore in tutte quelle attività esercitate al di fuori del mercato, come i lavori domestici, la crescita dei bambini, l’amicizia e molte altre attività civiche. I sondaggi mostrano che tra il 30% e il 50% del lavoro sociale, svolto tradizionalmente dalle donne, si colloca in questo settore informale. Perciò non è per nulla esagerato affermare che la cultura comunitaria delle attività non commerciali costituisce il reale fondamento della “creazione di valore” sulla quale si basano la politica e l’industria. Il “bene comune” è un termine che mette questa fonte nascosta di benessere al centro dell’attenzione.
Si deve quindi prestare rinnovata attenzione a quest’ultimo se si vuole discutere di un’economia stagnante o addirittura di una contrazione dell’economia? Ormai è impossibile ignorare la questione cruciale del nostro tempo: come possono la sicurezza sociale, una vita all’insegna del benessere, realizzarsi senza un’economia in crescita? Una risposta possibile richiede l’individuazione del modo in cui impiegare le risorse della legge, della terra, delle infrastrutture e del denaro affinché i cittadini possano svolgere molte attività in modo autonomo e responsabile. La risorsa più importante è il tempo di cui disporre liberamente. Solo chi ha il diritto di barattare parte del proprio stipendio con del tempo libero può permettersi di pensare al fai da te. Inoltre si può parlare di una vera alternativa a favore del lavoro individuale solo quando è possibile contare almeno su un reddito minimo indipendente dal lavoro retribuito. Tempo libero di cui disporre e reddito minimo sono i pilastri di un nuovo ordine della solidarietà e di un’economia indifferente alla crescita.
Meno cose ovvero l’eleganza della semplicità
I saggi insegnamenti di varie culture orientali e occidentali possono anche concepire in modo differente la natura dell’universo o il destino della Storia, ma quasi tutti consigliano all’unanimità di coltivare il principio della semplicità nella propria condotta di vita. Non può essere casuale. Condensando l’esperienza di molte generazioni, giungono alla conclusione che la strada verso un’esistenza soddisfacente non implica l’accumulo di ricchezze. Questi insegnamenti non sono affatto guidati dal masochismo. Concepiscono la semplicità come parte dell’arte del vivere. Riconoscono il legame tra l’eleganza della semplicità e l’eleganza della vita.
Il contrario di uno stile di vita semplice non è un’esistenza lussuosa, piuttosto un’esistenza distratta. Una sovrabbondanza di cose congestiona la giornata, distrae l’attenzione, prosciuga le energie e inficia la capacità di in- dividuare una direzione chiara. Solo trattando le cose con cautela si rendono disponibili le risorse sufficienti in termini di tempo e attenzione necessarie allo sviluppo legittimo di un personale progetto di vita. Perciò l’apologia della semplicità ha più a che fare con l’estetica della condotta di vita che con la moralità. Il superfluo implica una frammentazione della mente. Come nell’arte tutto dipende da un uso appropriato e sapiente del colore e delle tonalità, così anche l’arte di vivere richiede una scelta oculata nell’uso delle ricchezze materiali. In altre parole esiste qui un rapporto nascosto fra l’austerità e l’edonismo.
È come se questo genere di attitudini si perdessero tra gli outlet self-service della società dei consumi. Tuttavia, la forza di uno stile di vita che anela alla semplicità non implica soltanto una certa insensibilità alla crisi; ha anche a che fare con quel desiderio insopprimibile di una vita condotta in modo giusto. Chiunque voglia tenere la testa fuori dalla corrente dei beni di consumo non ha altra scelta che essere un consumatore selettivo; e chiunque desideri restare padrone dei propri desideri scoprirà il piacere di non cercare sistematicamente nuove opzioni di acquisto. Coltivare in modo consapevole l’indifferenza verso il consumismo ec- cessivo è davvero un atteggiamento orientato al futuro, per se stessi e, per puro caso, anche per il mondo. Henry David Thoreau doveva già esserne a conoscenza quando a Walden Pond scarabocchiò sul suo diario queste parole: «Un uomo è ricco in proporzione alle cose che può permettersi di lasciar perdere».