L’ultimo decreto Salva-Ilva degli ultimi 11 anni, quello del governo Meloni approvato in Senato, continua a promettere la tutela di “salute, lavoro e ambiente”. Ma di fatto si bilancia verso la produzione d’acciaio senza tutelare niente. La verità è che non è mai stato presentato un piano industriale.
Quando, il 26 luglio del 2012, la magistratura tarantina sequestrò senza facoltà d’uso gli impianti dell’area a caldo dell’acciaieria più grande d’Europa, allora di proprietà dei Riva, l’Italia finalmente scoprì i costi, ambientali e sanitari, che pagava da decenni la comunità jonica per sostenere le convenienze della produzione italiana di acciaio a ciclo integrale, la più inquinante. Da allora si sono succeduti otto governi, cambi di proprietà, commissari vari, procedimenti giudiziari, infortuni anche mortali sul lavoro. “Salvaguardare il lavoro e l’ambiente” è stato il motivo conduttore con cui sono stati giustificati i tanti decreti Salva-Ilva. Alla luce dei fatti, dopo quasi 11 anni, non si è riusciti a salvaguardare né il lavoro (migliaia di lavoratori in cassa integrazione) né la salute e né l’ambiente (lo dimostrano vari e autorevoli studi epidemiologici oltre che i recenti episodi di picchi di benzene cancerogeno o la particolare patogenicità delle polveri originate dallo stabilimento siderurgico). Tante anche le dichiarazioni e le promesse su come in futuro – un futuro spostato però sempre più avanti – lo stabilimento potrà diventare sostenibile e persino green.
Finora però non è mai stato presentato un piano industriale che desse garanzie sul fronte ambientale, sanitario e lavorativo.
In questo contesto, alla vigilia della Befana, il governo in carica ha pensato bene di portare in dono alla città di Taranto l’ennesimo decreto Salva-Ilva. È il decreto n. 2 del 5 gennaio 2023, che recita come da copione “misure urgenti per gli impianti di interesse strategico nazionale” ed è stato approvato solo pochi giorni fa dal Senato. Il decreto segue le orme di alcuni decreti passati e compie un ulteriore salto di qualità nello sbilanciamento verso la produzione dell’acciaio, a scapito della tutela della salute.
La relazione che accompagna il decreto ci spiega che la legislazione italiana sia troppo sbilanciata a favore dei diritti della salute e dell’ambiente, da qui l’urgenza di intervenire con un decreto per garantire la continuità produttiva industriale e, nel caso specifico dell’ex-Ilva, anche l’aumento della produzione. Coerentemente con questo approccio, la Commissione Industria ha blindato in modo ferreo il decreto. Non solo non ha tenuto in alcun conto le motivazioni e le proposte presentate nelle audizioni dai numerosi soggetti sociali, enti locali e istituzioni scientifiche ma, ha anche respinto i timidi riferimenti alle norme sulla tutela della salute e dell’ambiente contenuti negli emendamenti presentati dalla sua stessa maggioranza.
Se, com’è probabile, tali norme saranno confermate alla Camera, andiamo oltre ogni ragionevole bilanciamento tra l’interesse per il sistema economico nazionale, da un lato, e i valori costituzionalmente garantiti come la salute, l’ambiente ed il lavoro, dall’altro.
Sono in particolare 3 gli articoli (5, 6 e 7) che configurano di fatto una condizione di impunità per gli amministratori insieme ad una grave manomissione dell’autonomia della magistratura.
Si ripropone il cosiddetto “scudo penale” per gli amministratori dell’azienda, addirittura estendendolo a chiunque garantisca la continuità produttiva, in caso di illeciti amministrativi e penali eventualmente commessi nella gestione degli impianti. Lo scudo penale introdotto in un precedente decreto è stato già oggetto di sentenza da parte della Corte Costituzionale (la n. 58 del 2018) e di successive modifiche del Parlamento che hanno evitato un nuovo pronunciamento della Consulta.
L’attuale decreto fa di più. In caso di sequestro sottrae alcune decisioni al giudice naturale, nello specifico dell’ex-Ilva alla magistratura jonica, spostando il tutto al Tribunale di Roma. Tutto questo in presenza di una situazione impiantistica che ha portato la Corte di Assise di Taranto a maggio 2022 a negare il dissequestro degli impianti.
Sono norme che presentano profili di incostituzionalità. L’articolo 25 della Costituzione recita “Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”. Non è in alcun modo accettabile oggi, dopo più di dieci anni dal sequestro degli impianti, e quando il termine inizialmente previsto per il loro adeguamento è ampiamente trascorso, voler imporre ai cittadini di Taranto ed ai lavoratori dello stabilimento una totale perdita di garanzie circa reati che potrebbero danneggiarli, anche gravemente.
E, vale la pena ricordare, che esattamente un anno fa è stata introdotta nella Costituzione italiana la tutela dell’ambiente. L’articolo 41 oggi recita “L’iniziativa economica privata … non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.”
Ma perché il governo ha deciso di fare queste forzature nei confronti della magistratura visto che gli interventi del Piano ambientale (AIA rilasciata nel 2017) fra qualche mese (agosto 2023) saranno finalmente completati? Gli interventi prescritti e realizzati, in linea di principio, dovrebbero aver rimosso le cause di inquinamento e di poca sicurezza sul lavoro.
Evidentemente non sarà così. Il Piano Ambientale ha autorizzato una produzione fino a 6 milioni di tonnellate annue d’acciaio (nel 2022 la produzione nello stabilimento ionico è stata di circa 3 milioni di tonnellate), con la possibilità di aumentare la produzione a otto milioni di tonnellate a compimento degli interventi previsti nell’attuale A.I.A. (Autorizzazione Integrata Ambientale). Il problema è che non è mai stata svolta una Valutazione preventiva dell’impatto sanitario per stabilire con chiarezza quanto acciaio possa essere prodotto con gli impianti in esercizio, al fine di evitare nuove morti premature in aggiunta alle tante in eccesso già registrate. L’aumento della produzione comporta un peggioramento delle emissioni e, anche a causa dell’obsolescenza degli impianti e di una loro manutenzione inadeguata, potrebbe limitare non poco l’efficacia delle misure adottate. Non è un timore campato in aria. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.), in uno studio pubblicato un anno fa, ha confermato la validità dei rapporti prodotti fin dal 2013 da Arpa Puglia e Asl di Taranto circa la Valutazione del Danno Sanitario provocato dalle emissioni degli impianti ex Ilva. L’ultima Valutazione, prodotta a maggio 2021, attesta la permanenza di un rischio sanitario residuo non accettabile nello scenario di produzione di 6 milioni di tonnellate/anno acciaio ottenuta con gli attuali impianti a caldo, produzione attualmente autorizzata.
Vale la pena ricordare che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) ha condannato ben due volte il nostro paese per la vicenda del siderurgico jonico. Già nella prima sentenza di condanna del Governo italiano del 24 gennaio 2019 ha affermato che «… il persistente inquinamento causato dalle emissioni dell’Ilva ha messo in pericolo la salute dell’intera popolazione che vive nell’area a rischio» evidenziando l’omessa adozione di «tutte le misure necessarie per proteggere efficacemente il diritto al rispetto della vita privata dei ricorrenti». Il 5 maggio del 2022 ha nuovamente condannato lo Stato italiano per lo stesso motivo del gennaio 2019.
È più che probabile, quindi, che gli interventi del Piano Ambientale non saranno sufficienti a tutelare la salute e l’ambiente, a maggior ragione se aumenta la produzione. Questo spiega l’intervento preventivo del Governo, a costo di forzare la Costituzione, oltre che il rifiuto ad autorizzare la Valutazione dell’Impatto Sanitario che stabilirebbe, con rigore scientifico, quanto acciaio si possa produrre a Taranto senza rischi per la salute dei lavoratori e dei cittadini.
Dopo varie e complesse vicende societarie, attualmente lo stabilimento è governato da Acciaierie d’Italia, una società mista pubblico-privato che comprende la multinazionale anglo-indiana Arcelor Mittal (con quota di maggioranza) e la partecipata dello Stato italiano Invitalia (con quota di minoranza destinata a diventare maggioranza nel 2024). Il decreto si occupa anche di elargire, senza alcuna condizionalità, 680 milioni di euro, già prontamente erogati, destinati a pagare i debiti dell’azienda soprattutto con le aziende fornitrici del gas Eni e Snam. Sono “finanziamenti in conto soci” che potranno essere convertiti in aumento di capitale sociale da parte del socio pubblico. Per ora, quindi, l’assetto societario di Acciaierie d’Italia non cambia: il socio privato Arcelor Mittal rimane con una quota maggioritaria del 62 per cento. Il Governo ha quindi respinto anche la richiesta dei sindacati, viste le inadempienze della gestione privata, di destinare subito tali risorse all’aumento del capitale pubblico per rendere pubblica la governance.
Nell’assenza di un Piano industriale non mancano i propositi. Anche gli ultimi sono ancora troppo vaghi e contraddittori, non suffragati da precisi investimenti e cronoprogrammi per la decarbonizzazione. Sono stati annunciati un primo investimento per la produzione del “preridotto”, una tecnologia basata sul gas, e la costruzione di un forno elettrico. In un futuro, tutto da definire, l’utilizzo dell’idrogeno. Insieme, però, Acciaierie d’Italia punta a ricostruire il più grande altoforno d’Europa (AFO 5), capace di produrre 4 milioni di tonnellate di acciaio da ciclo integrale.
Altro che decarbonizzazione. Possono essere fatte tutte le forzature legislative ma, finché non sarà garantita la salvaguardia della salute e dell’ambiente, quell’impianto siderurgico continuerà a rimanere precario, non garantirà né lavoro né produzione, continuerà solo ad acuire le fratture sociali e istituzionali.