Pur riproponendone in apparenza alcune logiche, l’invasione su larga scala dell’Ucraina che la Russia ha lanciato il 24 febbraio 2022 può essere vista come la fine dell’era nota anche come il ‘post-Guerra Fredda’. Essa è figlia di un processo di gestazione lungo trent’anni.
Questo testo è tratto e adattato dal libro: Frontiera Ucraina. Guerra, Geopolitiche e Ordine Internazionale (Il Mulino 2022) di Francesco Strazzari che sarà presentato a Roma, alla fondazione Lelio Basso, il 7 novembre alla presenza dell’autore, di Luciana Castellina e di Giulio Marcon, portavoce di Sbilanciamoci!
Sono passati tre decenni dall’inizio dell’indipendenza ucraina, e altrettanti sono trascorsi da quell’11 settembre 1991 in cui il presidente americano George Bush annunciava un nuovo ordine mondiale. Tramontava la Guerra Fredda e iniziava la prima Guerra del Golfo: gli Stati Uniti dispiegavano truppe e televisioni nella liberazione del Kuwait, ritenuto una provincia irachena da Saddam Hussein, che lo aveva invaso. Si trattò, a ben vedere, dell’ultima volta che un Paese ha provato a conquistare, fagocitandolo, un altro Paese riconosciuto internazionalmente. Fondata sullo scollamento fra economia reale e finanza (ovvero fra territorio e ricchezza), la globalizzazione sembrava aver disincentivato la conquista territoriale.
Pur riproponendone in apparenza alcune logiche, l’invasione su larga scala dell’Ucraina che la Russia ha lanciato il 24 febbraio 2022 può essere vista come la fine dell’era nota anche come il ‘post-Guerra Fredda’. Essa è figlia di un processo di gestazione lungo trent’anni: mentre le terapie chock smantellavano l’apparato del socialismo sovietico e Francis Fukuyama annunciava la Fine della Storia, intesa come competizione fra ideologie di governo, si apriva nei paesi ex socialisti una fase di crisi drammatica, con convulsioni che non risparmiarono valori ed idee. L’ascesa al potere dei ‘sicurocrati’, e da ultimo di Vladimir Putin, venne salutata in Occidente non come frutto della sclerosi dell’ideologia di potere (un prolungamento della Guerra Fredda) ma piuttosto come un approdo pragmatico, un esito positivamente ascrivibile alla fine delle ideologie: nel pieno della fibrillazione, prevalevano quegli uomini d’ordine che intendevano il potere per il potere, e dunque avrebbero potuto servire l’ideologia liberale.
Dietro questa rassicurante convinzione, a molti sfuggì la natura ideologica della sfida che invece veniva incubata in ambienti nazionalisti, una sfida all’ordine internazionale e all’idea di governance globale che sarebbe diventata nel tempo sempre più chiara. Si tratta di un processo reattivo abbastanza comune davanti al panorama disegnato dalle riforme neoliberali, anche se in Russia il processo si articola con una storia imperiale e percezioni da Grande Potenza. A molti osservatori è sfuggita, per esempio, la rilevanza della retorica revanscista coltivata dai circoli marginali dell’estrema destra nazionalista, nostalgica dell’impero, come essa ha finito per permeare il discorso ufficiale, iniziando proprio con esternazioni sulla ‘Questione Ucraina’. Allo stesso modo, è sfuggito anche il riconfigurarsi del rapporto di symphonia fra potere politico e Chiesa ortodossa, con quest’ultima che agisce dapprima da ispiratrice, a colmare il vuoto di dottrina, e poi finisce per essere sempre più controllata da un potere che ne conferma il primato e si erge sul piano politico e militare a difensore dei valori tradizionali cristiani. Il potere politico russo inizia proprio dove tale primato è sfidato, lungo quella frontiera, dove le chiese ucraine sono da sempre vissute come sfida, e si estende agli altri territori ex Sovietici, quell’ ‘estero vicino’, la cui indipendenza viene sempre più spesso descritta come un dono di cui essere grati alla Russia.
La Russia però coltiva anche ambizioni ben più ampie che quelle del proprio vicinato, o dell’estero vicino, come mostra l’impegno profuso in anni recenti nella regione mediterranea, iniziando con l’opposizione all’intervento occidentale in Libia nel 2011 e proseguendo con l’intervento militare a sostegno del regime siriano, accanto alle truppe iraniane e a quelle di Hezbollah. Attraverso i contractors di Wagner e una serie di accordi militari bilaterali, Mosca è sempre più presente anche nel continente africano, a partire dalla Repubblica Centrafricana – dove le truppe russe si distinguono per numero di vittime civili – quindi proseguendo nel Sudan, nella Cirenaica libica, e nel Sahel (Mali): un’ampia regione dove il Cremlino si presenta – grazie a marchiane distorsioni della stessa storia russa – come outsider ‘privo di passato coloniale’ e compete direttamente non solo con la Francia (appoggiata dagli Stati Uniti nelle sue iniziative anti-terrorismo) ma anche con Cina, Turchia e monarchie del Golfo Arabo. Questa proiezione politica persegue un obiettivo che è anche una premessa: un ordine internazionale sempre più policentrico, che anche negli angoli più remoti del continente africano offre varchi per contestare le pretese universalistiche di cui si nutre l’imperialismo liberale imposto dagli Stati Uniti. La consacrazione di questa ambizione avviene nel 2019 con il primo vertice Russia-Africa, che viene co-presieduto da Putin e dal generale al-Sisi – quest’ultimo presente in qualità di presidente di turno dell’Unione Africana, ma anche partner strategico storico degli USA che è però sempre più vicino a Mosca. Nel 2022, nel mezzo dello sforzo piuttosto frustrante in cui si producono le autorità federali russe per reclutare volontari da inviare sul fronte ucraino, spicca lo slogan che campeggia sui grandi cartelloni pubblicitari affissi a Mosca per celebrare i reparti scelti dei paracadutisti russi: accanto all’immagine delle truppe scelte in tenuta combat appare in tutta evidenza la scritta “i confini della Russia non finiscono mai”.
La realtà che si incontra dietro queste ambizioni è assai più problematica. Nelle regioni settentrionali del Mozambico il dispiegamento militare russo è stato costretto alla ritirata dai miliziani jihadisti di al-Shabaab. Sul piano domestico, per quanto, fra coercizione e incentivi, la Russia possa riuscire a reclutare, il sistema di addestramento militare russo, segnato anche da perduranti frizioni, mostra di faticare a generare e dispiegare in tempi utili unità pronte al combattimento con un esercito come quello ucraino, che appare molto meglio motivato, organizzato e rifornito. Impegnato in uno scontro militare con l’Ucraina che, godendo del sostegno del mondo atlantico, si è rivelato assai più arduo di quanto non fosse inizialmente atteso, è plausibile che il regime di Putin, se saprà cogliere tempestivamente l’occasione per confezionare e presentare sul piano domestico un’idea di successo, potrà assicurarsi la sopravvivenza, assorbendo i costi politici della guerra attraverso un mix di meccanismi di razionalizzazione economica e coercizione politico-sociale. Questo al netto della possibilità di una ulteriore escalation verticale o orizzontale, scenario che non può essere escluso.
Vladmir Putin è costretto, in ultima analisi, a magnificare l’assunto di gran parte del pensiero strategico russo contemporaneo: l’idea che la sconfitta sul campo di battaglia non significa, di per sé, la sconfitta rispetto all’obiettivo politico, mediato dalla rappresentazione della realtà: esistono numerose variabili, le quali hanno a che fare con la destabilizzazione della verità e, in ultimo, con l’instabilità della volontà politica del campo nemmivo, costituito da governi soggetti a delicati meccanismi di validazione politica tramite voto democratico. La capacità della Russia di sostenere una guerra a medio-lungo termine dipende in ultima analisi da quanto le circostanze internazionali peseranno sulla sua scarsa capacità di conservare e sostituire le proprie dotazioni umane e materiali, ma anche da come – elezione dopo elezione – si andranno riconfigurando le volontà politiche nella sfera internazionale, inclusa la volontà di rifornire militarmente Kyiv nella misura in cui è necessario per respingere l’invasione.
L’esercito russo ha mostrato forti limiti e l’impossibilità di portare a compimento la missione che il decisore politico gli ha affidato in Ucraina: il passaggio a una tattica di distruzione sistematica delle infrastrutture elettriche e idrauliche del nemico, la energy warfare così evidente da Ottobre in avanti, può rallentarne l’azione, far emergere contraddizioni; tuttavia, difficilmente la sola capacità distruttiva in cui i russi hanno mostrato di eccellere già in Siria fermerà il corso degli eventi sul piano militare. Stanti le difficoltà incontrate dalla strategia di sostituzione delle importazioni e il venir di componenti occidentali – difficilmente Mosca riuscirà a rigenerare le fondamenta delle sue capacità militari senza l’aiuto della Cina. Quest’ultima non ha alcun interesse a farsi dettare l’agenda da Mosca: Pechino definisce la Russia un partner strategico, ma non si spinge a definirla un alleato. Certo Pechino insiste sulla narrazione che presenta la guerra causata dall’espansionismo occidentale a guida americana, ma nella realtà appare piuttosto attenta nel rispondere alle richieste economiche russe. Nel complesso, nell’età contemporanea, inaugurata dalle rivoluzioni industriali, in cui il controllo delle tecnologie e della connettività rappresenta l’elemento decisivo nella determinazione dell’ordine globale, l’espansionismo russo – certamente mosso anche dalla ricerca di risorse (Donbass e quadrante africano incluso) – non può competere rispetto a potenze ben più centrali rispetto alle supply chain globali, tanto più se gravato di sanzioni.
E’ un fatto che l’invasione russa e la guerra in Ucraina mettono alla prova la tenuta dell’ordine internazionale, rappresentandone una frontiera normativa per la violazione di una sua pietra d’angolo, la norma contro la conquista territoriale. Il fatto che la Russia, in quanto membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, possa porre il veto a un deferimento per il crimine di aggressione alla Corte Penale Internazionale espone una preoccupante vulnerabilità della norma contro la conquista territoriale.
Non è casuale l’investimento politico che la Turchia di Recep Tayyip Erdogan ha fatto sul conflitto in Ucraina, non solo per l’interesse al Mar Nero e alla Crimea, ma anche – con ogni evidenza – in vista della legittimazione del proprio costante intervento oltre confine: storicamente Cipro, ma nel presente il Nord della Siria e dell’Iraq, dove nell’ultimo decennio, contro le formazioni islamiste e jihadiste sostenute o tollerate dalla Turchia, si sono articolati i progetti di confederalismo democratico a guida curda. In difficoltà sul piano politico ed economico domestico, il disegno neo-imperiale di Erdogan si gioca le proprie chances politiche in politica estera, intrattenendo con la Russia – fra Libia, Siria, Azerbajan-Armenia e altri scenari regionali, un rapporto di rivalità e cooperazione. Il perseguimento del proprio interesse nazionale in chiave neo-imperiale e con vistosi scivolamenti autoritari porta la Turchia a disallinearsi rispetto agli altri paesi NATO rifiutando di adottare le sanzioni, giocando sul teatro ucraino una serie di ruoli, che vanno dalla fornitura di droni da combattimento all’Ucraina, all’acquisto di sistemi d’armi russi, passando per buoni uffici e mediazione in materia di porti e cereali, e offerta di ospitalità e pacchetti turistici a basso costo.
Non si tratta, qui, di essere ciechi rispetto alle forme e ai modi in cui si è storicamente manifestato l’imperialismo delle potenze europee e poi degli Stati Uniti, ascesi al ruolo di superpotenza prima, e quindi, dal 1991, di iperpotenza sempre più contestata. E’ però un fatto che la connotazione spaziale e territoriale dell’imperialismo liberale, riflesso degli imperi commerciali sul mare, conduce a una lettura geopoliticamente differente rispetto a quella degli imperi continentali. I leader statunitensi – si pensi a Woodrow Wilson o a Franklin Roosvelt si sono distinti come accesi sostenitori del principio di integrità territoriale dello stato, poi iscritta nella Carta dell’ONU. Nello sviluppo della norma contro la conquista territoriale è iscritto il riconoscimento che la maggior parte dei conflitti, compresa la Seconda Guerra Mondiale, sono stati in qualche modo combattuti per la conquista e il controllo di territorio. Una forte norma di condanna della situazione in cui uno stato prende il territorio di un altro stato con la forza, dunque, ha fatto storicamente parte di un progetto più ampio inteso a promuovere la pace. Emersi dal secondo conflitto mondiale assai più forti dei loro alleati, gli Stati Uniti considerano l’applicazione di questa norma come né più né meno che un cardine per preservare la stabilità globale.
Con la fine della Guerra Fredda la sfida ideologica sembra destinata ad essere de-territorializzata, avendo come protagonista una visione a una dimensione della democrazia liberale, della rule of law e dei mercati. Tuttavia, Vladimir Putin vede la Storia non certo come il dispiegarsi delle libere volontà verso la governance dei problemi comuni. La Storia non è mossa da norme e mercati, ma dalla forza (forze occulte incluse, se si guarda ai circoli moscoviti) nel perseguimento del proprio stretto interesse: il progetto politico putiniano, dall’incipit con seconda guerra di Cecenia in avanti, è segnato dal fuoco e dal sangue di campagne militari, in un crescendo di assertività. Non ci sono evidenze del fatto che Putin, nel lanciare l’invasione di un Paese che, come l’Ucraina, conta più di 44 milioni di abitanti, pensasse a un conflitto protratto: molti indizi fanno pensare che il Cremlino puntasse a un’azione risolutiva che, come nelle precedenti occasioni, palesasse le divisioni e l’ipocrisia di cui si nutre un nemico che è forte solo nella misura in cui non è sfidato. Per quanto Putin possa decidere di escalare il conflitto, considerati i vistosi limiti della performance militare e i vincoli economici, è assai improbabile che sarà in grado di controllare, fino a determinarlo, l’impatto della sfida che ha lanciato all’ordine internazionale. E’ invece più probabile che saranno altre potenze e concatenazioni di circostanze ad imprimere la direzione del cambiamento internazionale, mentre la Russia dovrà a lungo fare i conti con un quadro di dissesto domestico che rischia di comprometterne l’autonomia decisionale.
In questo quadro, l’Ucraina aggredita ha tutto l’interesse a cogliere l’opportunità per ampliare e approfondire il conflitto, evidenziando come la frontiera ucraina in realtà riguarda tutti. Nel far ciò Kyiv abbraccia fino in fondo l’idea della difesa globale della democrazia, retorica che la Presidenza Biden dispensa dal giorno del suo insediamento a Washington, presentando la guerra come scontro fra ideologie opposte: libertà contro repressione, un mondo governato da regole contro un mondo retto dalla forza bruta. La narrazione democrazia vs. autoritarismo ha aiutato la mobilitazione dell’occidente, infondendo nella comunità euro-atlantica il senso di unità e comune proposito che era stato fortemente compromesso durante la Presidenza Trump, ma ha avuto un impatto significativamente diverso nel resto del mondo. Pochi paesi, al di fuori dell’Occidente, si sono affrettati ad adottare le sanzioni contro la Russia. Se ne sono ben guardati numerosi partner strategici dell’Occidente, come le petromonarchie del Golfo, Israele o un importante membro NATO come la Turchia, per non parlare dei Paesi membri dei BRICS e del numero crescente di aspiranti tali. Quando è stato loro chiesto di condannare la Russia per atrocità commesse in guerra, molti paesi africani si sono ben guardati dallo schierarsi, denunciando l’ipocrisia occidentale nell’applicare diversi pesi e diverse misure, e mirando – assai pragmaticamente – a tenersi le mani libere. In altre parole, l’esigenza – particolarmente sentita dalla Presidenza Biden – di ricompattare anche ideologicamente le democrazie, e soprattutto le due sponde dell’Atlantico, ha prediletto una narrazione strategica che, mettendo aspetti quali indipendenza territoriale e politica in secondo piano rispetto ad altri come democrazia e diritti fondamentali, è risultata meno efficiente nel creare un consenso globale più ampio.
Se il carico di ideologia e i paradossi della deterrenza nucleare non guideranno verso un’escalation che innesca una guerra molto più ampia e intensa, prima o poi il conflitto proporrà il momento in cui la diplomazia prende la parola, riportando la guerra sul terreno spesso amaro del compromesso e della Storia. Il ruolo delle mobilitazioni dal basso appare importante, nel creare il terreno in cui si possibile sottrarre il conflitto alla sua matrice più identitaria, territoriale e militarista, riarticolando ipotesi politiche – smentendo l’idea che la diplomazia e il peacebuilding agiscano solo nel momento in cui, infine, tacciono le armi e la distruzione è fermata. Esistono innumerevoli evidenze empiriche che mostrano l’infondatezza di tale comune rappresentazione nei conflitti contemporanei.
La vicenda ucraina non pone solo il problema della pace, parola quasi scomparsa dal frasario del dibattito pubblico, così intriso di immaginario geopolitico legato alle teorie della vittoria. Il riaffacciarsi, attorno alla vicenda bellica russo-ucraina, di logiche di potenza e di agende neo-imperiali riporta al centro del dibattito un mondo in cui ‘relazioni internazionali’ sembra ancora tradursi con ‘Europa’, mentre il ‘resto del mondo’ – cominciando con il Sud – torna ad essere rappresentato come categoria residua, pensata come procedente ‘a ruota’, in cerca di definizione circa con chi schierarsi, ma in fondo priva di agency propria. Questa rappresentazione è empiricamente sbagliata e fuorviante rispetto alle molteplici dimensioni per le quali l’Ucraina si presenta oggi come frontiera di un ordine internazionale in divenire. In un mondo segnato da aspiranti potenze impegnate nella competizione per l’egemonia fin nei confini delle periferie, vale la pena tornare a interrogarsi, oggi, sui meccanismi di (ri)produzione violenta di confini, sfere di interesse ed influenza, gerarchie post-coloniali e retaggi imperiali, così come sulle forme che assume la resistenza ai medesimi. Quale spazio si prospetta per l’Unione Europea, strano animale allevato attorno a un’ipotesi disarmata di pace e prosperità post-sovrane? In un quadro globale segnato dall’urgenza indifferibile delle scelte legate alla transizione ecologica, occorre chiedersi come leggere oggi il rapporto fra militarismo, liberalismo e democrazia.
Riflettendo sul conflitto in Ucraina, Francis Fukuyama ha recentemente invitato a ripensare il nesso fra liberalismo e nazionalismo, rivalutando quest’ultimo, sostanzialmente accettando sia la critica conservatrice secondo la quale le società liberali non forniscono un forte nucleo morale comune attorno a cui costruire la comunità, sia – in parallelo – l’idea che gli stati rimangono gli attori politici importanti, in quanto gli unici in grado di esercitare l’uso legittimo della forza. Il liberalismo va difeso dagli estremi, sostiene Fukuyama: identità nazionale e universalismo liberale trovano punti di equilibrio che impediscono al nazionalismo di deragliare trasformandosi in nazionalismo aggressivo. Insomma tutto bene, non fosse che la pace e l’aumento della prosperità globale su ampia scala per tre quarti di secolo si scontrano, nel 2022, con un’invasione russa che fa presagire disordine e impoverimento a venire: ciò che il Presidente francese Macron, suscitando le critiche e il sarcasmo di chi l’abbondanza non l’ha conosciuta, ha definito la fine dell’ “era dell’abbondanza”. Non avendo memoria recente di violenza, guerra e dittatura, parte del mondo vede indebolito il desiderio di vivere in una società liberale.
Proprio qui, nella designazione del nemico, si trova un limite scivoloso del pensiero liberale, tanto più in situazioni di polarizzazione e crisi, in cui il consenso diventa elusivo. In altre parole, quando, per difendere il bene (e l’ordine) dall’illiberalismo, si procede di emergenza in emergenza, fra stati d’eccezione e crescente criminalizzazione degli estremi, nell’implementazione del programma economico liberale. Le traiettorie ideologiche di 30 anni di transizioni russa, ucraina e centro-europea, fra le altre, illustrano come questo programma abbia alimentato nel tempo un problema di ordine internazionale. Esse pongono il problema del grado in cui la democrazia liberale sia destinata, per restare egemone, verso una china conservatrice e autoritaria.