Il libro di Alessandro Messina rilancia il dibattito su un modello di impresa che risale all’800 ma conserva tutte le potenzialità. Bisogna però ripartire dai tanti errori commessi e formare nuovi manager.
In Europa i primi passi delle società cooperative risalgono al primo ventennio del XIX, il 1800. Da allora le cooperative sono cresciute costantemente nei vari settori della produzione e poi soprattutto in quello del consumo alimentare. Le forme che queste speciali società hanno assunto nel corso della storia state molto diverse, ma non è mai cambiato il nucleo di fondo, potremmo dire l’essenza dell’idea cooperativa. Stiamo parlando di una organizzazione economica che non si può assimilare all’azienda capitalistica e che non è paragonabile a nessuna istituzione di emanazione del potere pubblico statale. E non si può neppure assimilare, secondo una visione arcaica e utilitaristica, alle istituzioni non profit. Una cooperativa, qualsiasi cooperativa, è in realtà un’impresa anche se esercita attività economica in modo diverso dalle società per azioni. Il punto reale che differenzia una cooperativa da un’impresa capitalistica è “tra il profitto ricercato come missione, oppure come condizione di efficacia sociale”. Infatti, l’economia associativa e cooperativa, pur non dovendo garantire ritorni finanziari ai propri soci, non può permettersi di chiudere in perdita gli esercizi di gestione.
E’ questo il concetto di base intorno a cui ruota la ricerca di Alessandro Messina, economista “eclettico” con varie importanti esperienze alle spalle (ha operato nel pubblico e nel privato ed è stato direttore generale dei Banca Etica). La sua ricerca si è tradotta in un libro appena uscito per la collana “Le talpe” delle edizioni Altraeconomia (141 pagine, 15 euro): “Manager cooperativi”. Il sottotitolo è in apparenza minimalista (“Un manuale per gestire imprese controcorrente, in equilibrio tra etica e business”), ma introduce subito ad un ambito di riflessione importante che travalica l’introduzione alle regole di base della cooperazione, per scandagliare nel profondo delle relazioni economiche. Dare sostanza insomma a quelle parole “etica” e “business” che si usano centinaia di volte ogni giorno sui quotidiani, nei dibattiti televisivi, nei convegni per addetti ai lavori. Per questo è riduttivo parlare del libro di Messina come semplice manuale (senza togliere nulla alla utilità indiscussa della manualistica). Noi abbiamo letto questo libro anche come un importante saggio sull’idea filosofica generale della cooperazione e in certi parti anche sulla natura umana. Siamo individualisti per natura? Come mai negli ultimi trent’anni è potuta diventare egemone una cultura economica (e politica) che vede nella competizione, nel tutti contro tutti, nel “mors tua vita mea”, il fulcro dei rapporti produttivi e delle strutture portanti delle società avanzate? Nell’idea e nella pratica della cooperazione queste domande hanno una risposta naturale perché i protagonisti di queste storie, dipendenti, soci, consumatori e soprattutto manager, sono impegnati ogni giorno a trovare un difficile equilibrio tra l’efficienza economica necessaria e le azioni che connotano il senso politico dell’impresa cooperativa, dove si deve costantemente conciliare la costruzione di una gerarchia efficiente con la “vocazione orizzontale ed inclusiva”.
La cooperativa deve saper conciliare l’obiettivo dei successi economici con quello della gestione democratica “orizzontale” delle scelte. Ovviamente è tutto più difficile perché si tratta di trovare costantemente il punto di equilibrio senza delegare il destino delle persone a qualche mega amministratore delegato chiuso nei suoi spazi blindati, o peggio a qualche fondo di investimento di cui non è possibile neppure avere una qualche rappresentazione figurativa. Le cooperative sono qualcosa di completamente diverso e si basano su una scommessa che sembra impossibile vincere come si vede anche dalla storia. Nel libro di Alessandro Messina è molto interessante la ricostruzione dell’evoluzione storica del sistema cooperativo che ha attraversato varie fasi che l’autore ha semplifica in quattro precisi periodi: dal 1820 al 1920, l’epoca degli utopisti, dei pionieri e dei rivoluzionari; dal 1921 al 1960, tra difesa e reazione durante e dopo il regime fascista: dal 1961 al 1990, l’epoca della scoperta del mercato; dal 1991 al 2020, il periodo dell’espansione e dell’omologazione, ma anche dei furbetti, degli affaristi e degli oligarchi cooperativi. In ognuno di questi quattro periodi storici le cooperative sono cresciute (molto meno durante il ventennio) e hanno imparato dagli errori. Ma quello che è successo nella fase più recente ha toccato quasi un punto di non ritorno ed è da lì, dal superamento di quei mali che Messina suggerisce di ripartire senza ipocrisie.
La bella idea della solidarietà e del modo diverso di fare impresa è stata infangata dalle scelte di manager e affaristi senza scrupoli che hanno saputo usare tutto il peggio della politica e tutto il peggio della criminalità organizzata economica. Dalle idee visionarie ed etiche dei pionieri, il sistema della cooperazione italiana è diventato negli anni permeabile all’irregolarità e perfino allo sfruttamento capitalistico. Nel libro si cita – non a caso – l’intervento dei rappresentanti dell’Alleanza delle Cooperative Italiane in audizione alla Camera dei Deputati nel 2020: i dirigenti nazionali delle cooperative (sia rosse, sia bianche) rappresentanti di 55 mila cooperativa con un milione e duecentomila dipendenti, sono stati costretti a condannare “l’equazione secondo la quale lo sfruttamento dei lavoratori, gli appalti illeciti e la somministrazione abusiva di manodopera viene declinata solamente in relazione alle cooperative, sapendo bene che in realtà il fenomeno dell’abuso del diritto e della violazione delle norme in materia di lavoro, di appalti e di fisco riguarda l’intera gamma delle forme societarie di impresa e, per la stragrande maggioranza dei casi, forme diverse da quelle della cooperativa”. Insomma da impresa che vive sulle nuvole, nell’empireo delle belle speranze di rivoluzione, la cooperativa è divenuta agli occhi dell’opinione pubblica (per colpa dei furbetti e degli approfittatori senza scrupoli) il peggio del peggio.
Per Alessandro Messina bisogna dunque ripartire da qui. Non basta aver fatto pulizia e non è sufficiente la legge per condannare chi ha sbagliato. Si tratta piuttosto di rivitalizzare le idee e i principi che hanno dato vita nella storia a questa speciale forma di impresa. Si tratta di ridare fiducia ai lavoratori delle coop e formare manager in grado di tenere il timone tra i marosi del mercato e la fine delle ideologie politiche che avevano sorretto al suo nascere il movimento cooperativo. Si tratta di riprendere un filo di una storia che è sicuramente utopistica, ma non velleitaria. Anzi si potrebbe vedere la cooperazione come la soluzione più logica, più naturale, di problemi complessi (automazione, trasformazione dell’organizzazione del lavoro, divisione internazionale del lavoro, ecc.) a cui l’impresa tradizionale e l’economia capitalistica liberista non sanno dare risposte. Una strada antica e nuovissima al tempo stesso. Non basta e non serve più dire, “ma noi siamo buoni”. Oggi si deve rendere viva, nelle azioni e nelle scelte di tutti i giorni, la definizione di cooperativa che è molto più difficile realizzare di una impresa tout court. L’impresa cooperativa non si giustifica sulla base di un calcolo utilitaristico o sui guadagni individuali, quanto piuttosto per “il valore prodotto per la collettività, per il tessuto sociale, per l’ambiente e le generazioni future”. Per questo non basteranno vuote formule retoriche e inviti a cambiare. Per costruire il futuro ci vorrà tempo.