Aggregare, manutenere, curare. Allargando lo sguardo alla comunità, potenziando le capacità di ciascuno, chiamando tutti a un’opera di sutura delle fratture prodotte dalle disuguaglianze. Un libro su questo modello come creatore di sviluppo buono.
Ormai da anni, il nostro paese è caratterizzato da profonde disuguaglianze, unite a diffuse fragilità sociali e a processi di oppressione delle libertà sostanziali che svuotano i principi costituzionali. È cresciuto un senso di fastidio, perché l’allargarsi delle aree della vulnerabilità economica e sociale, le povertà sempre più dure che caratterizzano la vita di alcune famiglie, le disuguaglianze sempre più incancrenite in molti aspetti del quotidiano, alimentano impietosamente la competizione tra differenti aree meno protette di ogni quartiere e città, con la conseguenza inevitabile di introdurre segnali di discriminazione, conflitti tra italiani e stranieri o tra ultimi e penultimi. Il Covid-19 non ha fatto altro che rendere più denso questo quadro di criticità, dicendoci in modo chiaro che era la normalità di prima il problema, perché ingiusta, soprattutto nei confronti dei più deboli, ingorda e onnivora con il suolo e i beni comuni e improvvida di fronte alle sfide epocali della sostenibilità.
All’interno di un contesto così complesso, questo libro, che nasce dall’incontro fra tre persone fra loro molto diverse, mira a far incontrare e dialogare i diversi mondi all’interno dei quali i tre autori solitamente si muovono: quello del lavoro sociale, del lavoro educativo e dell’economia. Le storie che il libro racconta, quella di Edlir, di N. di Silcia, di Imma, ma anche dell’operatore sociale o della dirigente scolastica, offrono lo spunto da cui parte l’opera di “rammendo” tra dati e riflessioni.
L’obiettivo del libro, infatti, è duplice. Se da un lato sentiamo e capiamo l’urgenza di far incontrare, confrontare e dialogare il mondo di chi si occupa di dati con quello di chi lavora nel sociale, perché entrambi riprendano consapevolezza dell’altro e della forte relazione che esiste tra i due, dall’altro c’è anche l’esigenza di avviare una profonda riflessione sul lavoro sociale, con la consapevolezza che lo stato attuale di cose dipende certamente dal disinvestimento economico, politico e culturale degli ultimi quarant’anni, ma ha anche origini interne al mondo del lavoro sociale stesso, e cerca quindi di fare i conti con gli errori passati e le fragilità attuali.
Negli ultimi quarant’anni il modello economico e finanziario prevalente ha fatto sì che il lavoro sociale ed educativo venisse considerato tutto sommato sacrificabile da larga parte della politica e dei decisori pubblici. I dati raccontano che abbiamo vissuto una lunga stagione in cui il sistema di protezione collettivo è stato trasformato apportando tagli potenti e lineari di risorse a tutti i servizi e non, come si auspicava, superando e correggendo l’eccesso di burocrazia e standardizzazione e dando più spazio alla personalizzazione. Così, sanità, protezioni sociali, opportunità educative compensative, investimenti in ricerca, tutela del patrimonio, cura dell’ambiente, vivibilità urbana, attenzione a bambini e ragazzi nelle città e fuori, sono state ridotte a voci di bilancio da tagliare, e l’idea stessa di cura è stata sottratta al piano dei diritti per essere inserita in quella del “dono”. Eppure, le storie, i dati e le riflessioni del libro mostrano che investire nel welfare e potenziare i servizi non è solo di pubblico interesse, perché garantisce il benessere di tutte e tutti, ma è anche presupposto e non esito dello sviluppo. E anche da un punto di vista economico diventa un ambito di buona spesa, perché consente risparmi alle pubbliche amministrazioni.
Questo disinvestimento economico, politico ma anche cultuale, ha portato anche chi lavora nel sociale a sminuire il senso del proprio lavoro e ha lavorato in maniera limitante su di noi, come gruppi e come individui. Ha tolto orizzonti di speranza sia a chi è escluso, sia a chi con gli esclusi e le escluse ci lavora; ha prodotto assetti difensivi nelle nostre comunità di pratiche, impoverendo l’azione sociale e rendendola conservatrice e riduttiva; ha scisso in maniera drammatica lo sviluppo della tenuta della società.
Va quindi ribaltato l’approccio, anteponendo la società allo sviluppo, con la consapevolezza che la difesa dei diritti delle persone, anche quando appaiono ultime e tanto differenti da noi, è questione che riguarda non solo quelle specifiche persone, ma l’intera comunità, ed è quindi una questione di pubblica utilità.
Bisogna quindi lavorare non solo sulla risposta ai bisogni, ma provare a favorire l’aggregazione e l’auto-rappresentanza dei bisogni. Bisogna sentirsi ed essere, come operatori, non solo ricercatori di bisogni, ma anche scovatori delle tante risorse, le tante resistenze e i tanti protagonismi che sono presenti nelle aree del disagio, nei tanti margini e nelle periferie, e che spesso costituiscono gli unici punti di riferimento e di aggregazione esistenti e accessibili e, al contempo, manutentori dei propri luoghi di lavoro e curatori delle relazioni che li sostanziano.
Nella consapevolezza che il lavoro sociale deve cambiare, il libro non propone certezze o risposte definitive, ma indica una strada di cambiamento. Si tratta di attuare un vero e proprio ribaltamento di un luogo comune, di trovare un equilibrio tra la cura dei disagi e la valorizzazione di competenze e desideri, per restituire riconoscimento alle aspirazioni di comunità che si sentono private non solo del futuro ma della possibilità stessa di cittadinanza. Si tratta di vagliare i servizi tenendo conto del loro impatto trasformativo sulla vita e le storie delle persone, della loro proiezione nel futuro, del coraggio di farsi carico delle asperità, e dell’orientamento alla costruzione di alleanze vere e non reti formali. Si tratta di ambire ad essere promotori del bene comune dei luoghi e delle comunità, uscendo dalla strada della protezione delle persone per avventurarsi su quella della loro promozione.
Rifiutare di intraprendere questo cammino e chiudersi, significa non solo restare immobili, ma porre le basi per scenari incerti e preoccupanti, dove i conflitti e le marginalità sempre più diffuse metteranno facilmente in discussione la qualità di vita e la sicurezza per l’insieme delle persone che abitano le nostre comunità. Dove i disagi diffusi e le povertà si incontrano con la paura dell’altro differente, si crea un’interazione negativa, che spinge verso processi di chiusura e conflitto in cui il pregiudizio diventa “voce di popolo” che trasforma le persone fragili in barbari, alieni, clandestini.
La strada che proponiamo ruota attorno a quattro parole chiave, quelle attorno alle quali tutto il libro è in qualche modo costruito: Sconfinare, ribaltare, raggiungere e dialogare. Sono, da un lato, antidoti alla pigrizia e al rischio di rinchiudersi nell’abitudine del consolidato – che sarebbe l’errore più grande in quest’epoca di cambiamento; e sono le chiavi per costruire nuove alleanze, per intrecciare sempre di più la tutela dei diritti con la rigenerazione dei luoghi, con la ricucitura di legami e relazioni provate e stressate dalla crisi, con la produzione di economie di prossimità e buoni lavori.