Il governo Draghi ha bloccato con Golden power due operazioni cinesi: l’acquisto di Iveco e di una società di semiconduttori, la Lpe. Con una visione più elastica avrebbe potuto gestire meglio i due dossier, ora entrambe le imprese sono a rischio.
Il governo contro gli investimenti cinesi in Italia
Serpeggiava un certo interesse di sapere quale sarebbe stata la posizione del nuovo governo in merito ai rapporti economici con la Cina e la risposta non si è fatta attendere a lungo.
Di fronte all’intenzione di due imprese del paese asiatico di acquistare la maggioranza del capitale di due aziende italiane, la Iveco, ben nota produttrice di camion e controllata dagli Agnelli e la milanese Lpe, piccola impresa operante nel settore dei semiconduttori, la risposta del duo Draghi-Giorgetti è stata assolutamente negativa. E’ stato esercitato il cosiddetto golden power, anche se, almeno nel caso della Iveco, il settore in cui opera l’azienda non era compreso in quelli ritenuti strategici. D’altro canto, per quanto riguarda sempre l’Iveco, ufficialmente il governo è rimasto nelle retrovie e non è apparso come responsabile della chiusura, anche se il veto è quello che è plausibilmente avvenuto.
Intanto veniva anche impedito ad Huawei di partecipare alle gare per il 5G di Tim; anche in questo caso il governo è rimasto apparentemente in secondo piano.
L’oltranzismo atlantico di Draghi e la posizione violentemente anticinese della Lega sembrano avere alla fine guidato le decisioni. Magari ne seguiranno altre.
A prima vista la risposta del governo nei due tentativi di acquisizione può sembrare condivisibile. Da tanti anni assistiamo, in effetti, ad un continuo stillicidio di imprese italiane, anche di grande interesse, che passano in mani straniere senza che il governo in carica, di centro-destra o di centro-sinistra che sia, batta ciglio e senza che ci sia sostanziale reciprocità di trattamento per le imprese italiane che vogliono andare all’estero: si veda su tutti, senza rispolverare le molte antiche piaghe, il caso della Francia che ha negato nelle scorse settimane il via libera a Fincantieri per il controllo della STX. Mentre è proprio di questi giorni la notizia che il francese Crédit Agricole ha acquisito tranquillamente il controllo dell’ennesima banca italiana.
D’altro canto, il diavolo sta nei dettagli e appare relativamente semplice mostrare perché le due risposte del governo nei confronti delle operazioni di acquisizione dei capitali cinesi risultano sostanzialmente sbagliate anche dal punto di vista dell’interesse nazionale.
La Lpe
Sulla vicenda della Lpe è apparso di recente un esauriente articolo di Ferruccio De Bortoli (De Bortoli, 2021). Si tratta di un’impresa lombarda con 70 dipendenti e un fatturato di 20 milioni di euro. I cinesi miravano ad acquisire il 70% del suo capitale, mentre i soci attuali avrebbero continuato a gestirla operativamente e anche le attività di ricerca e sviluppo sarebbero rimaste in Italia.
In realtà, anche se opera nel settore dei semiconduttori, l’impresa non produce niente di strategico né di legato alla difesa. Ora, le vendite della società solo per il 4% si collocano in Italia e per il 60% invece si dirigono proprio in Cina, secondo le cifre pubblicate da De Bortoli. Quindi, senza il mercato del paese asiatico l’azienda fallirebbe immediatamente. Così ora è sotto minaccia e i suoi prodotti potrebbero essere copiati dagli stessi cinesi. In mancanza di una qualche idea di sviluppo del settore a livello europeo, in cui potrebbe essere inserita l’azienda, solo i concorrenti gongoleranno.
Come suggerisce sempre De Bortoli, si sarebbe potuta magari mettere in piedi un’ipotesi alternativa, con la partecipazione cinese al capitale con una quota di minoranza qualificata, ma nessuno ci ha pensato.
La Iveco
Di molte maggiori dimensioni è il caso della Iveco. La società fa parte di CNH Industrial (società con sede in Olanda, ridente paradiso fiscale) del gruppo Agnelli. L’azienda occupa 24.000 persone, mentre il suo fatturato nel 2019 è stato di circa 10,4 miliardi di dollari.
Tra le ragioni della possibile cessione dell’impresa sembra esserci in questo caso la scarsa propensione degli Agnelli verso i rilevanti investimenti necessari per il passaggio delle produzioni dal diesel all’elettrico e all’idrogeno, nonchè verso la guida autonoma. L’Iveco è il produttore più piccolo del settore in Europa, con una dimensione modesta rispetto a Daimler (che vale sul mercato dieci volte tanto), a Volvo e a Man-Scania-Vw e da sola avrebbe difficoltà a reggere. Anche su questo fronte sarebbero necessari rilevanti investimenti per reggere bene il mercato.
Era la cinese Faw ad essere interessata all’acquisto. Nel 2020 questa impresa asiatica ha prodotto auto e camion per circa 3,7 milioni di unità – 7 milioni con le joint-venture – per un fatturato di 107 miliardi di dollari. Sul momento sta intanto varando in Italia, in Emilia-Romagna, un importante impianto per la produzione di auto elettriche sportive.
Per l’Iveco mancano alternative nazionali: l’intervento della parte pubblica, da sola, non risolverebbe le prospettive di lungo termine dell’azienda, né si vedono privati impazienti di saltare sull’affare. Sull’eventuale interesse di Daimler incomberebbe l’Antitrust europeo e nella Volvo Trucks forse sarebbe lo stesso e comunque ci sono già dentro capitali cinesi; ne risulterebbero inevitabilmente, in ogni caso, esuberi di personale e chiusure di impianti. In ogni caso, nessun altro ha apparentemente manifestato qualche interesse all’affare. Resterebbe la fusione con un’altra casa del settore, ma non ci sono imprese disponibili in Europa. L’arrivo della Faw appare alla fine ragionevole, almeno a certe condizioni. Ahimè, “il passero va dove trova il grano”, dice un proverbio.
In mancanza di un accordo, presumibilmente gli Agnelli si sbarazzeranno ora dell’Iveco quotandola in Borsa; e speriamo di non essere tra un paio d’anni costretti a leggere sui giornali di operai ai cancelli delle fabbriche che protestano contro il licenziamento di 1.000 addetti e/o la chiusura di qualche impianto.
Anche in questo caso si poteva immaginare una partecipazione cinese importante, anche se di minoranza; ma di nuovo nessuno ci ha pensato. Ora si vagheggia di un qualche accordo in Europa, che sarebbe certo auspicabile, nonché di utilizzo dei fondi del Recovery plan; staremo a vedere, increduli. Appare abbastanza plausibile che nessuno nel governo troverà più il tempo di occuparsi della questione.
Forse gli Agnelli cercheranno di riprendere in qualche modo e tra qualche tempo il discorso con i cinesi, dal momento che per loro sarebbe la soluzione più conveniente; chissà, il governo potrebbe anche cambiare idea.
Ricordiamo che anche l’Italia ha firmato, con gli altri paesi dell’Unione Europea, un accordo per favorire gli investimenti tra il nostro continente e la Cina. Non sembra proprio un bell’inizio.
Testo citato nell’articolo
-De Bortoli F., Golden power e mercato, Corriere della sera, 19 aprile 2021