Nel pacchetto di misure per la ripresa avviate dal governo Draghi manca la costruzione di una rete di ricerca capace di sostenere l’innovazione nelle imprese. Il modello tedesco in questo campo è difficile da replicare, ma c’è una vecchia proposta che merita di essere rilanciata.
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) è partito, con i suoi molti progetti e i problemi di fattibilità organizzativa, tecnica e finanziaria. Ora l’attenzione si sposta sulle riforme strutturali, le più importanti sono note: pubblica amministrazione, giustizia civile, fisco.
È nebbia profonda invece su ricerca e innovatività, a parte gli aspetti più tecnicamente legati ai progetti. Perché siamo il fanalino di coda in Europa quanto a dinamica della produttività? Perché manca, a parte eccezioni, un diffuso ambiente che favorisca l’innovazione? Quale cosa manca solo da noi? Basta dare un’occhiata comparativa alle reti di ricerca europee per trovare una risposta. Uso l’esempio della rete extra-universitaria tedesca.
In Germania esiste, quale risultato di processi iniziati ai tempi di Bismarck, una rete di soggetti che gestiscono ciascuno un insieme di laboratori che fanno ricerca accanto alle università, agli istituti di formazione professionale superiore (le Fachhochschulen che intorno al 2015 avevano circa 900.000 studenti a fronte di 1,7 milioni di universitari). Tali soggetti sono fondazioni, istituzioni pubbliche, imprese private (che spendono la maggior parte delle sole risorse per R&S), che agiscono in rapporti di complementarietà e spesso di cooperazione, e che hanno il sostegno, in termini di fondi e di una rete di intese e di attività di coordinamento, da parte di soggetti locali, di länder, federali. I principali soggetti esecutori delle attività di R&S – oltre ad università e Fachhochschulen – sono Fraunhofer (FhG, spesa 2015 di 2,1 miliardi anno, 24.000 occupati), Max Plank (MPG, 83 istituti di cui 5 all’estero, 2 miliardi di spesa nel 2015, 22.000 persone, 1.100 visiting scientist, 291 direttori di dipartimento), Helmholtz (HFG, 3,95 miliardi nel 2015, 37.000 occupati in 18 grandi centri), Leibniz (WG, 1,64 miliardi, 18.000 occupati in 89 istituti).
Quel che questo scenario quantitativo non mette di per sé in evidenza è la complementarità che si viene a creare tra ricerca di base e applicata, il rispetto reciproco tra i soggetti dei due campi e la mobilità trasversale dei ricercatori, il grande rispetto sociale di cui godono i ricercatori stessi. Quel che sfugge ai nostri opinion makers è che sviluppo e innovatività richiedono complementarità, tra attività, tra soggetti e nel tempo: i cambiamenti giusti, al momento giusto, dei soggetti giusti. Sta in questo il miracolo di tali cambiamenti positivi. Non esiste un solo strumento salvifico. Devono concorrere, in tempi compatibili, un insieme di condizioni, di strumenti, di decisioni. Le iniziative singole possono avere sia successi che insuccessi, ma conta la probabilità che i primi prevalgano.
Il quadro tedesco è il risultato di un processo durato un secolo e mezzo. Non possiamo imitarlo. Dobbiamo solo prendere atto che la percezione diffusa nella società è che i laboratori e i ricercatori in essi operanti, insieme ad un sistema di organizzazione e regole, siano il prerequisito di qualsiasi dinamica innovativa. Senza di essa i meri finanziamenti industriali all’innovazione (la strada italiana fin qui percorsa) rischiano di essere uno spreco. Ci si deve convincere, a tutti i livelli, che la presenza di ricercatori in qualsiasi campo, indipendentemente dal fatto che facciano ricerca fondamentale o applicata, è la premessa della percezione stessa di opzioni innovative e per il loro successivo sviluppo.
Per questo occorre avviare un processo in cui il perno organizzativo di una nuova fase storica sia l’innesto di ricercatori, formalmente organizzato in laboratori, nelle attività non solo statali, bensì di soggetti dell’industria e degli enti locali (o di loro consorzi). La costituzione di laboratori dotati di autonomia contabile rispetto ai soggetti fondatori, formalizzata con apposite revisioni statutarie da parte dei soggetti proponenti, è un passo fondamentale. Lo è per più ragioni. La prima è che esso rende chiaro che i soggetti altri rispetto allo stato fanno sul serio quando chiedono benefici fiscali e supporti di finanziamento per la ricerca. La seconda e non meno importante è il riconoscimento culturale, sociale e lavorativo dei ricercatori e del loro ruolo.
Partendo dalla nostra situazione e nell’arco di tempo del PNRR non si può che tentare di avviare le cose nella direzione giusta. Ciò è possibile adottando una riforma preliminare molto semplice, il cui costo dipende dal suo successo. Si tratta di favorire la costituzione di laboratori con i requisiti appena visti, usando la loro previa costituzione quale unico filtro per ottenere una serie di benefici. Il primo di questi sarebbe la messa a punto di un contratto di lavoro nazionale, flessibile ma fortemente garantito, per tutti i ricercatori (che non verrebbero quindi più inseriti nel contratto dell’accidentale ramo di attività dei datori di lavoro) e l’accesso a crediti di imposta di entità superiore al 100%, l’entità dei quali dovrebbe essere modulata nel tempo previo monitoraggio. In caso di successo i benefici sarebbero incommensurabili e le perdite di gettito minime. In caso di insuccesso non vi sarebbero perdite per l’erario ma i premi potrebbero essere rinforzati, sempre condizionalmente. Questo è quanto indicato in un disegno di legge messo a punto anni fa con la Fondazione Di Vittorio da me insieme ad un gruppo di esperti di innovazione, concepito quale leva capace di smuovere le cose nella direzione giusta, sfruttando la valorizzazione di risorse già esistenti e rimuovendo ostacoli inutili e spesso stupidi (l’articolato, di quattro semplici articoli, è reperibile qui).
In quel disegno di legge la priorità veniva data all’esigenza indiscutibile che vi sia un contratto di lavoro atipico per la ricerca (ciò che chiama in causa le organizzazioni sindacali). Le attività di ricerca hanno bisogno di flessibilità nel tempo, nei contenuti e nelle condizioni di pagamento. Quando una struttura di ricerca, fuori o dentro il settore pubblico, vince un finanziamento su progetto o ottiene un affidamento ha bisogno di aumentare rapidamente le sue forze, specie in un momento in cui il personale stabile è ridotto al minimo, per poi tornare ad un regime normale. Oggi la difficoltà di reperire risorse umane, unitamente alla necessità di aggirare limitazioni giuridiche, fronteggiare i problemi burocratici, affrontare le incertezze di costo dovute alla variabilità dei regimi contributivi e le incertezze dovute alla precarietà dei rapporti scoraggiano molte strutture pubbliche dal partecipare ai bandi (specie europei) o cercare committenze in conto terzi.
Inoltre è opportuno che i soggetti di ricerca non debbano impiegare il loro tempo in questioni amministrative, organizzative e fiscali, ma lo dedichino alla ricerca e alle attività connesse. Per questo si prevede l’esenzione delle università e degli enti di ricerca dal pagamento delle imposte sui profitti. Questo snellirebbe i rapporti tra i soggetti di ricerca statali (gli unici oggi importanti con poche eccezioni) e altri soggetti dell’industria e della società civile, che devono poter collaborare con i loro laboratori. Si tratta anche di far cessare un’autentica e perdurante contraddizione, visto che lo Stato chiede alle strutture pubbliche di ricerca di aumentare le proprie entrate e al contempo di aprirsi alla società, e che le strutture svolgono in prevalenza un ruolo pubblico a carico dello Stato; appare quindi opportuno favorire la massima loro apertura verso la società e le imprese, eliminando una partita di giro e stabilendo buone premesse per la mobilità dei ricercatori tra vecchie e nuove strutture.
Quanto ai crediti di imposta il disegno di legge li concepisce in modo che ad utilizzarli siano i soggetti che fondano e finanziano inizialmente la costituzione dei laboratori.
Una tale riforma, certo con qualche aggiornamento, offrirebbe subito coerenti opportunità di impiego ai giovani dottori di ricerca, porrebbe un freno alla fuga dei ricercatori all’estero e potrebbe addirittura rendere appetibile a ricercatori stranieri il loro collocarsi in Italia. Intravvedo comunque alcune difficoltà nel suo recepimento. Alla burocrazia verrebbe infatti tolto il grosso del controllo, reso pressoché automatico. Potrebbe dispiacere. La seconda difficoltà è che, essendo una riforma trasversale e sistemica, non esistono ministeri che da soli possano prendere l’iniziativa e la responsabilità (interessati dovrebbero essere, oltre il MUR, lo Sviluppo economico e, perché no, Trasporti e Transizione ecologica). Ma questo vuoto dovrebbe essere superato da un governo che sta provando ad assumere iniziative sistemiche. Ed infine intravvedo difficoltà da parte dei soliti che griderebbero allo sfruttamento dei ricercatori. Ai sindacati e ai potenziali ricercatori il compito di far capire quanto sarebbe invece immenso il passo in avanti.
* Sergio Bruno è stato professore ordinario di Economia Pubblica all’Università di Roma “La Sapienza”