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Expo 2015, i padroni del cibo

L’agroalimentare è il settore dove lo scontro tra bisogni delle popolazioni e potere delle multinazionali si presenta in modo plastico, quasi didascalico

Lo slogan dell’Expo2015 (“Nutrire il pianeta. Energia per la vita”) ben sintetizza la melassa buonista che ci accompagnerà nei prossimi mesi. Già è partita la gara a chi auspica un agroalimentare equo e sostenibile, capace di soddisfare i bisogni dell’intera popolazione mondiale, superando l’insopportabile contraddizione tra spreco e fame, tra obesità e denutrizione. Ma con sparute eccezioni, si tratta in larga parte d’ipocrisia in cattiva fede. L’agroalimentare è infatti il settore dove lo scontro tra bisogni delle popolazioni e potere delle multinazionali si presenta in modo plastico, quasi didascalico. Ma quasi nessuno ne parla.

L’agroalimentare è infatti un settore dominato da grandi gruppi globali che macinano profitti grazie alla forbice amplissima che separa prezzi alti per i consumatori e redditi bassi per gli agricoltori. In uno studio del movimento europeo del commercio equo (FTAO) sulle filiere di cacao, caffè, zucchero e banane si stima che agli agricoltori vada circa il 10% del prezzo finale, contro quote intorno al 30-40% che si prendono intermediari e industria di trasformazione (per i dettagli si veda l’articolo pubblicato da Altreconomia di gennaio). Un’altra fetta importante di reddito se la prendono i gruppi della grande distribuzione organizzata (GDO), le cui centrali d’acquisto hanno ormai un potere contrattuale persino superiore all’industria di trasformazione. Alcuni di questi grandi gruppi globali sono famosi – per non dire famigerati: chi non conosce Nestlé, Kraft, Walmart e Carrefour? Chi non conosce gli untori dell’obesità su scala mondiale come Coca-Cola e McDonald? Ma pochi conoscono Cargill, Glencore o Archer Daniels Midland (ADM). Eppure sono quasi sempre questi gli operatori che “strozzano” i contadini del nostro pianeta imponendo loro prezzi d’acquisto da rapina: si tratta infatti del manipolo di potentissimi oligopolisti che controllano il mercato mondiale delle materie prime agricole. Un mercato ormai oggetto anche degli appetiti della finanza che – partendo dagli strumenti di protezione (hedge e futures) dei contratti di compravendita – ha esposto ai su e giù della speculazione anche questo settore, impedendo ai coltivatori di fare piani di medio-lungo termine. Basti ricordare quando nel 2011 il prezzo di mercato di mais, grano e olio di palma improvvisamente esplose senza legami con l’offerta e la domanda, per poi riscendere altrettanto repentinamente.

A completare il quadro ci sono anche i big della “rivoluzione verde”; i grandi produttori di sementi, fertilizzanti e pesticidi come Monsanto e Dupont. I quali si sono da tempo lanciati nei mercati delle biotecnologie, sostenendo la coltivazione degli OGM (in particolare in Africa e Sud America), contribuendo alla riduzione drastica della biodiversità nei campi e distinguendosi nello scandaloso tentativo di brevettare la conoscenza frutto del lavoro secolare dei coltivatori del Sud del mondo. E sempre nuove frontiere si aprono: mentre nel Parlamento europeo si è discusso se rendere obbligatoria nelle etichette la dichiarazione di “nanomateriali” nei prodotti alimentari, Monsanto si sta addirittura per lanciare nel settore emergente dei big data, con l’idea di vendere agli agricoltori un mix d’informazioni su colture, trattamenti e previsioni meteo.

L’azione a tenaglia di intermediari e rivenditori di input agricoli sul collo degli agricoltori del Sud del mondo è mortale: il suicidio finanziario col ricorso ai prestiti di banche e strozzini è infatti l’ultimo passo prima del suicidio vero e proprio (molto spesso usando proprio i pesticidi comprati a caro prezzo). E quello dei suicidi degli agricoltori – in particolare nel Sud di Asia e America – è un vero e proprio genocidio di cui l’informazione mainstream raramente parla. Altro che “energia per la vita”…

E poi l’agroalimentare è il regno delle asimmetrie commerciali. Mentre grazie agli accordi promossi in sede WTO si sono obbligate le economie del Sud del mondo ad aprirsi al commercio internazionale, in USA e Europa si sono continuati ad erogare sussidi e ad applicare dazi proprio sui prodotti agricoli. Risultato: i mercati africani, asiatici e sudamericani invasi dai prodotti del Nord del mondo e le terre del Sud divorate dalle colture di prodotti per l’export, a partire da quelli “utili” all’industria: dalla soia per i pastoni di mucche e maiali, all’olio di palma per i biscotti del Mulino Bianco e per la Nutella, per arrivare al mais e alla jatropha per i biocarburanti. E in mezzo ci stanno loro, il popolo dei coltivatori, ormai privo sia di un’agricoltura di sussistenza, sia del reddito per comprarsi il cibo importato. E infine – ultimo ma certo non meno importante – dobbiamo ricordarci dell’accaparramento delle terre (meglio noto come land grabbing): terre africane e asiatiche date in concessione a stati esteri (la Cina e i Paesi della Penisola arabica innanzitutto) che le coltivano a vantaggio esclusivo delle proprie popolazioni.

Tutto questo potere dei big globali dell’agroalimentare si alimenta e si riproduce grazie ad una capacità di pressione politica enorme. A “casa loro” la lobby di queste imprese è infatti impressionante, riuscendo di fatto a far scrivere sotto dettatura leggi, regolamenti e accordi commerciali. A “casa degli altri” si va molto meno per il sottile: oppositori e attivisti dei movimenti contadini si ammazzano, punto. E chi ha la memoria un po’ più lunga ricorderà il golpe in Guatemala del 1954 o i finanziamenti agli squadroni della morte colombiani; in entrambi i casi c’era dietro la United Fruits, che oggi si chiama Chiquita, quella del “bollino blu”.