L’acqua – preziosa, scarsa, essenziale – è la protagonista di ‘Oro blu’, di Edoardo Borgomeo, un libro con nove storie di fiumi, laghi, acquedotti, agricoltura, città, affari e potere. E delle conseguenze sulla società, il clima, l’ambiente.
Oro blu è un libro sull’acqua. Il titolo non è troppo invitante, ma tant’è. Significa solo che il blu – l’acqua – vale molto, quasi quanto l’oro. Poi nei brevi capitoli che compongono il volume (Laterza, 2020) è spiegato con cura come l’acqua valga senza confronti più dell’oro. La sostanza dei capitoli è dare la voce, o l’immagine, a nove – o novanta – persone incontrate da Edoardo Borgomeo, l’autore, in svariate situazioni, in nove contesti e continenti diversi, nel corso della ricerca. Sono persone, talvolta insolite, che se ne intendono; e spiegano, a chi vuole ascoltare, l’idea dell’acqua. Abbiamo scelto tre incontri soltanto con persone innamorate dell’acqua tra le tante, in rappresentanza di tre momenti non troppo battuti nella letteratura idrica abituale, con molto dispiacere e un invito ai lettori a leggere tutto per farsi un’idea – nove idee – sul maggiore tra i problemi del presente. In chiusura, come supplemento, leggeremo le parole di Amico Dolci, uno dei figli di Danilo, con cui si conclude il giro d’orizzonte di Borgomeo.
Il primo incontro – l’ottavo nell’economia del libro – è a Città del Messico. La città sorge sopra un territorio coperto negli antichi tempi da tre laghi, seppelliti dagli spagnoli che in pratica consideravano l’acqua come disordine. Assorbita l’acqua dei laghi sotto la città, ne occorreva dell’altra, sempre di più, per le crescenti esigenze vitali, in una capitale con milioni di abitanti. Così si costruirono condotte vertiginose per far salire l’acqua di centinaia di metri dal corso dei fiumi alla città dell’altipiano. Serviva poi un altro fiume, “con più o meno la stessa portata dell’Arno, sottoterra” per portar via, fuori, le acque nere, le acque usate. Ogni grande città ha questi problemi. A Città del Messico, come a Dacca, come a Karachi. Come a Londra, dove sono spiritosi, e hanno avuto il coraggio di esporre nel museo un loro fantastico ritrovato che ostruiva le condotte di scarico: il fatberg, la montagna di cacca, fattasi da sé e tenuta insieme, fusa senza rimedio con tutto il resto che si butta nello scarico delle abitazioni in rappresentanza di tutti gli altri fatbergs (le altre minori montagne di…), degli sgorghi della città.
1. A Città del Messico è stato eretto un palazzo per celebrare l’acqua, quella pulita che entra e quella che poi esce, portando con sé ciò che abbiamo usato e non ci serve più. Borgomeo è sollecitato dai suoi conoscenti di lì a visitare il “Carcamo de dolores” e lo fa per noi. La stazione di pompaggio chiave della città si chiama così ed è il punto d’incontro delle acque. In un primo tempo i suoi grandiosi affreschi alle pareti e al suolo erano a contatto con l’acqua, per l’infrangibile volontà dell’artista; poi risultò chiaro che i colori non resistevano; occorreva un restauro difficile e continuo, oppure la scelta opportuna di tenere l’acqua lontana dalle pitture. Il pittore è naturalmente Diego Rivera, ormai conosciuto in Occidente come il marito di Frida Kahlo; Si tratta del pittore di affreschi politici maggiore nel suo tempo: un suo affresco newyorkese è stato imbiancato al Rockefeller Center per aver inserito Lenin; un altro affresco a Mosca è stato rimosso colà per aver dipinto Trotskij. Come dire: pari e patta. Per quel che riguarda il Carcamo, conviene dare un’occhiata a internet che talvolta funziona e sa descrivere un mondo indescrivibile. C’è la storia dell’acqua, la storia del Messico, il futuro di entrambi; gli uomini e le donne e il loro lavoro difficile e continuo; e le religioni e i miti che hanno saputo leggere e trasformare un romanzo che è tutt’altro che concluso. Ecco l’acqua di Diego Rivera, l’acqua di Ciudad de México.
2. Come sanno coloro che conoscono la storia di Hans, il bimbo eroico di Harlem che con un dito impedì al mare di superare la diga, i Paesi Bassi, come dice anche il loro nome, si estendono al di sotto del livello del mare. Per secoli si alzavano dighe sempre più alte per difendere i campi e i villaggi, i tulipani e le mucche che una mareggiata avrebbe potuto sommergere. Ora – racconta Borgomeo – è tutto il contrario. Non si costruiscono più dighe; l’acqua dell’alta marea non fa paura, anzi. Se va oltre i limiti previsti, è invitata e diretta e controllata del suo avanzare e ritrarsi. Il colloquio con uno specialista del nuovo corso si svolge infatti in una grande città olandese, Rotterdam e in una piazza “grande come S. Giovanni” (la piazza del Primo Maggio a Roma) che qui si chiama Piazza Benthemplein. Quando l’acqua sale, è previsto che la piazza che di norma serve a tutte le attività cittadine, come alle chiacchiere e al passeggio, allo sport – perfino al gioco del basket – venga sommersa e così si determini ogni volta, a regola d’arte, la quantità di acqua da immettere e come dirigerla in uscita per favorire le attività umane, quel giorno e tutti i giorni: l’agricoltura, la fabbrica dei fiori e le altre tutte, senza sprecare una goccia e senza che nessuno – nessun uomo, nessuna mucca, nessun fiore – abbia a lamentarsi. Gli olandesi sono talmente bravi e la loro bravura è talmente conosciuta che ne hanno ricavato un mestiere: i loro servizi, come tecnici dell’acqua e come finanzieri dell’acqua sono apprezzati in tutto il mondo, ne fanno uso a Karachi come a New York. Hanno reinventato un antico mestiere, quello per esempio dell’agrimensore egizio che cura l’esito delle piene del Nilo. D’altronde, l’acqua è sempre la stessa e scende e si allarga sempre allo stesso modo; e si sporca e si pulisce facendo le solite attività dappertutto. Bisogna solo applicare le tecniche appropriate e scoprirne di nuove, quando serve. Inoltre, continuare a studiare.
3. Non è solo questione “dell’acqua pubblica e dei dibattiti sulla privatizzazione dei servizi idrici. Stiamo parlando del diritto di un fiume di poter decidere cosa fare della propria acqua e di poter trascinare in tribunale un fetente che ci scarica dentro dei rifiuti”. Non si tratta di una concezione semplice come quella derivata dal culto inca di Pacha Mama, insomma della Madre Terra cui va portata venerazione o almeno rispetto da tutti i viventi. Si può credere e non credere in Pacha Mama, si può applicarne la devozione o non farne niente. Diverso è il caso se se ne fa una legge, come in Ecuador, dove l’hanno inserita all’articolo 71 della Costituzione. Qui il caso è diverso. Quello del fiume, di ogni fiume, è un diritto originario, presente in una giustizia superiore, non scritta nei codici (Ecuador a parte) ma innata nelle menti, che ogni giudice, ogni sindaco, ogni persona dabbene devono, possono, riconoscere e applicare. Farlo nelle decisioni, nel comportamento quotidiano. Si può solo sentire o non sentire; capire o non capire. “Il fiume non soltanto (è) metafora del mutamento della vita, come vuole Eraclito, ma anche dei diritti di tutti gli esseri non umani del mondo”. Ne dicono tante altre al povero Borgomeo, che davvero appare frastornato. Poi il nostro autore ha il sopravvento nella discussione e allarga lo sguardo e s’immerge nel fiume, tra le sue rive giocose. Siamo in Australia lungo il Murrumbidgee, dalle parti di Camberra. Chi lo accompagna, un po’ per celia, un po’ sul serio, parla di riverlution cioè di rivoluzione fatta dal fiume, come se fosse un gioco di parole tra persone che sanno tutto e conoscono la legge del futuro. Il fiume è splendido, limpido, fresco, come dovrebbero essere tutti i fiumi; sicuri di sé e dei propri diritti.
4. Come promesso, ascoltiamo infine Amico Dolci, uno dei tanti figli di Danilo. Racconta che il padre insisteva non sul “modello di gestione dell’acqua in cui gli esperti e i tecnici non servono a niente, ma un modello dove il primo stadio è sempre una presa di coscienza da parte della popolazione dei problemi che le interessano e delle possibili soluzioni”. Insomma, a tanti anni di distanza, una proposta di cui noi compatrioti, per una volta non ci vergogniamo. Una diga “costruita sull’ascolto”; così dice Amico che è un musicista. “La diga non raccoglie solamente l’acqua e con lei le aspirazioni dei contadini e il loro desiderio di lavorare. La diga raccoglie anche parte della storia di Amico, la memoria della sua famiglia e suo padre. Per questo la conosce così bene, perché per lui è una parente”. Una scelta che è stata insieme sociale, capace di coinvolgere i contadini che da cento anni erano soggiogati dalla mafia e anche i governanti, costretti dallo sciopero della fame di Dolci padre, a partecipare al finanziamento del progetto (1963-1967), fino alla nascita della diga, “di sabbia e roccia”, “alta sessanta metri e lunga quattrocento” che sbarra lo Iato e offre ai contadini terra da coltivare. Quasi subito l’impianto prese il nome Mario Francese, in ricordo di un giornalista ucciso dalla Mafia. “L’acqua serve per emanciparsi dal ricatto mafioso e dalla mancanza di lavoro”; alla mafia questo non piace; non piace l’acqua libera, controcorrente, a poco prezzo.