Lo Stato dell’economia/Servono programmi di investimento affiancati da ricerca e formazione. Un esempio? Il settore della mobilità
Le colonne dei maggiori quotidiani nazionali – il Sole 24 ore appare spesso meno ideologico del Corriere della Sera – reggono la facciata di un palazzo svuotato, crollato. Le granitiche certezze delle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro, di riduzione del salario, di flessibilizzazione del mercato del lavoro e di privatizzazione avrebbero dovuto attirare capitali stranieri capaci di fermare la distruzione del sistema industriale italiano.
Gli «amici sono alle porte», ci hanno ripetuto i presidenti del consiglio che si sono alternati: perchè potessero varcare la soglia bisognava ridurre la presenza dello Stato, falciare le tutele dell’ambiente e dei lavoratori, tagliare la spesa pubblica e liberaralizzare attività come la sanità in modo che la liquidità finanziaria potesse scorrere, ridare vita ai rami secchi della nostra economia e farne germogliare di nuovi.
È così? Quali crisi industriali sono state risolte? Quanti gruppi multinazionali hanno investito creando nuove produzioni? Quale il saldo sull’occupazione? Ed infine, siamo così sicuri che politiche nazionali possano offrire possibilità di progresso?
Se vogliamo provare ad uscire dalla crisi, queste domande dovrebbero essere al centro di un confronto a carte scoperte tra istituzioni, imprese, lavoratori e cittadinanza. Marcegaglia, Ilva, Fiat, Alcoa, le aziende dell’elettronica, solo per guardare al settore metalmeccanico, rappresentano ognuna in modo diverso la deindustrializzazione del paese. Nei talk show ci viene detto di continuo che la causa di tutto è l’assenza di riforme. In verità di riforme nella direzione auspicata da manager – in giacca e cravatta o col maglioncino – da uomini e donne delle istituzioni collocate a destra come a sinistra, da editorialisti ed esperti ce ne sono state tante: l’art. 8 di Sacconi sulle deroghe ai contratti e alle leggi, la riforma Fornero sulle pensioni, la modifica dell’art. 18, il Jobs Act e da ultimo l’intervento sulla pubblica amministrazione. Il fatto è che non hanno prodotto i risultati annunciati.
Di cosa avremmo bisogno? Di investimenti pubblici e privati utili a costruire una società che offre lavoro e promuove la cittadinanza, che tutela la natura e i beni comuni. L’esempio più semplice è la mobilità. La vita media degli autobus in Italia è superiore a 12 anni, il trasporto pubblico su rotaia per i pendolari è quantitativamente e qualitativamente inadeguato, il mercato dell’auto sempre più dominato dalle importazioni. C’è l’esigenza dei cittadini di una mobilità pubblica e privata che abbia un impatto ridotto sull’ambiente, e c’è la possibilità di realizzare produzioni industriali che allarghino l’occupazione. Andiamo in questa direzione? Nel piano industriale della Fca (la Fiat ormai dovremo chiamarla così) non sono stati annunciati modelli di automobili con motori ibridi o elettrici. La produzione di autobus pubblica vede il disimpegno e la privatizzazione nelle scelte del governo e quel che rimane del settore privato rischia di essere colonizzato. La produzione di treni, neanche a dirlo, vede Finmeccanica scegliere di vendere il settore civile per rimanere coi piedi ben saldi nel militare. È questa la visione del futuro che abbiamo? In più, molte aziende che si erano collocate nel settore della produzione «green» stanno ora chiudendo; lo stesso avviene in un altro settore chiave come l’elettronica.
Invece di affrontare questi problemi di fondo, si indugia sulla flessibilizzazione in entrata ed in uscita, vengono distrutti posti di lavoro, si fanno accordi tra organizzazioni di imprese e sindacali che permettono deroghe alle norme e al salario, si ignora l’esigenza di tutela del reddito nelle iniziative contro la disoccupazione. Un ruolo centrale può e deve averlo chi lavora. Serve costruire programmi di investimento affiancati da formazione, ricerca e innovazione, intrecciando nuove produzioni possibili e domanda della cittadinanza.
Dal 2008 i metalmeccanici Fiom provano a non farsi rinchiudere nel recinto corporativo dell’aziendalismo e si sono messi alla ricerca di chi vuole condividere un’idea di cambiamento. Abbiamo moltiplicato gli incontri, in Europa e nel mondo, con altri soggetti, sindacati ed esperti, le iniziative comuni con associazioni e movimenti: un tentativo di opporsi alle tendenze in atto, di resistere agli effetti della crisi. Ora la sfida è costruire una coalizione tra chi lavora, chi è precario, chi ricerca, chi studia, che in Europa sia capace di sfidare la classe dirigente. Nonostante i fallimenti – la crisi, l’austerità – continuano a decidere loro. È una strada difficile, perchè l’élite decide in fretta, crea fatti compiuti, fa a meno della democrazia. Dalla storia degli ultimi anni, in particolare in Italia, bisognerebbe imparare che non basta aver ragione, o pensare di averla, per costruire il consenso e intraprendere un conflitto. La democrazia non accetta scorciatoie. Sindacati, movimenti, associazioni, dovrebbero esserne consapevoli.