Dibattito sulla crescita/Per mettere in discussione l’impianto neo-mercantilista, le misure espansive devono andare di pari passo con un radicale ripensamento dell’insieme delle politiche industriali, energetiche, finanziarie, spostandosi da un’economia trainata dai consumi a un piano di investimenti di lungo periodo
In un articolo pubblicato l’11 marzo sul Manifesto (“Agli economisti progressisti”), Paolo Cacciari pone alcune domande agli organizzatori dell’incontro “Un’altra strada per l’Europa” che si terrà il prossimo 19 marzo al Parlamento europeo a Bruxelles. La prima domanda è se sia “realistico, oltre che sensato, pensare di uscire da questa crisi affidandosi alla “crescita” (del Pil, è sempre sottinteso) e a “politiche espansive”?”.
I disastri causati dai vincoli europei e da politiche di austerità in una fase recessiva dell’economia sono fin troppo evidenti. Non solo gli impatti sono devastanti sul piano dell’occupazione e dell’aumento delle disuguaglianze, ma lo stesso rapporto debito/Pil continua a peggiorare in tutti i Paesi che hanno a diverso titolo dovuto applicare le ricette della Troika. Come dire che tali misure sono sbagliate non solo da un punto di vista sociale ma anche da quello macroeconomico. Al di là delle dichiarazioni di facciata, l’austerità di fatto si traduce in un attacco ai salari e ai diritti delle lavoratrici e dei lavoratori che assieme a un calo dell’inflazione dovrebbe portare a una maggiore competitività dei Paesi della periferia europea, che potrebbero in questo modo tornare a crescere.
È il modello export led growth o “mercantilista” imposto da un’Europa a guida tedesca. Un modello in cui l’Europa dovrebbe partecipare a una gara globale sulle esportazioni, ovvero di fatto a una corsa verso il fondo in materia di diritti, ambiente, fisco.
Se occorre uscire da tale impostazione, la fine dell’austerità e l’avvio di politiche espansive non è di per sé sufficiente. Nelle stesse parole di Cacciari, non ci si può limitare a pensare che “per aumentare l’occupazione bisogna far cresce la domanda interna e le esportazioni”. Di fatto uno dei problemi – anche e soprattutto tra le forze cosiddette progressiste – è il criticare l’austerità non come parte di tali politiche neo-mercantiliste, ma al contrario perché si è dimostrata inefficace nel realizzarle. In questo quadro una maggiore spesa pubblica dovrebbe permettere di rilanciare produzioni e consumi tout court, riportando l’Italia e gli altri Paesi della periferia europea a crescere.
È invece l’intero impianto neo-mercantilista a dovere essere rimesso in discussione assieme all’austerità, abbandonando la follia di una competizione con la Cina sul piano dei costi del lavoro e della tutela ambientale. Per questo misure espansive devono andare di pari passo con un radicale ripensamento dell’insieme delle politiche industriali, energetiche, finanziarie pubbliche, spostandosi da un’economia trainata dai consumi a un piano di investimenti di lungo periodo.
Per chiarire con alcuni esempi, efficienza energetica, riconversione dell’economia, “piccole opere”, mobilità sostenibile, interventi contro il dissesto idrogeologico, ricerca nel campo delle energie rinnovabili sono tutte proposte che potrebbero coniugare un minore impatto sull’ambiente con la creazione di posti di lavoro e un’economia virtuosa.
Servono nuovi indicatori per misurare il successo o il fallimento di tali politiche, e su questo non possiamo che concordare sul fatto che il Pil e il concetto di “crescita” non possano continuare a essere presi a riferimento assoluto come avviene oggi. Nello stesso momento, troppo spesso anche chi li critica rischia di ricadere nella stessa trappola, auspicando una diminuzione del Pil come indicatore da seguire per un cambio di rotta. Sbilanciamoci! ha pubblicato per diversi anni il rapporto Quars – Qualità Regionale dello Sviluppo, che partendo dall’analisi di diversi parametri, quali accesso all’educazione, diritti, politiche ambientali, pari opportunità, cultura e molti altri, cercava di proprio di mostrare come troppo spesso Pil e qualità della vita non vadano di pari passo.
Analogamente, nel proprio rapporto e nel lavoro quotidiano Sbilanciamoci! è impegnata nel chiedere quella “ristrutturazione in radice del funzionamento della finanza” che Cacciari giustamente segnala come “condizione preliminare” alla realizzazione di investimenti o politiche differenti. Richieste che vanno dalla separazione tra banche commerciali e di investimento a una seria lotta contro i paradisi fiscali, dall’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie a dei controlli sui movimenti di capitale, a molte altre.
La seconda domanda di Cacciari riguarda il rischio che investimenti possano portare a nuovo debito, con il risultato che “alla fine a guadagnarci non saranno mai i salari, ma le rendite finanziarie!”. La gestione del debito pubblico è uno dei pochi strumenti di politica economica a disposizione degli Stati. Viene da domandarsi se il problema sia il debito in sé, o piuttosto, il fatto che nel tritacarne della finanziarizzazione tale strumento si è trasformato in una gigantesca “macchina di redistribuzione al contrario” della ricchezza, dove le tasse dei cittadini servono a pagare interessi crescenti. Anche in questo caso sono diverse le proposte per invertire la rotta, partendo dall’assurdità di una Bce che presta oltre 1.000 miliardi di euro all’1% alle banche private ma per statuto non può intervenire per sostenere gli Stati in difficoltà o come prestatore di ultima istanza.
Come sottolinea Luciano Gallino, negli ultimi anni è stata realizzata una “straordinaria operazione di marketing” per cui nell’immaginario collettivo la crisi delle banche è diventata una crisi dei debiti pubblici. Non è l’eccesso di debito pubblico che ci ha trascinato nella crisi, ma di debito privato realizzato in ultima analisi proprio per “drogare” la crescita del Pil a fronte di crescenti disuguaglianze di reddito. Come ricorda Cacciari nel suo articolo, negli ultimi trent’anni “la quota dei salari sul reddito nazionale (negli Stati uniti come in tutta Europa) è diminuita a favore di quella andata ad appannaggio dei profitti e delle rendite.”. È proprio questa sempre peggiore distribuzione dei redditi e della ricchezza ad avere determinato processi di indebitamento eccessivo funzionali a sostenere la domanda aggregata.
È su queste basi che crediamo vada costruita una risposta per un differente modello economico tanto a livello macro quanto con il favorire le esperienze di “altra economia” che Cacciari cita nel suo articolo e per le quali crediamo siano necessarie politiche pubbliche ad hoc. Politiche che proviamo a segnalare nell’ultimo rapporto di Sbilanciamoci! su come cambiare la Legge di Stabilità e uscire dalla crisi.
Lo stesso termine “crisi” è probabilmente errato, in quanto rimanda a un fenomeno di rottura e di breve durata, e non a un cambiamento strutturale dell’insieme della società e dell’economia come quello che stiamo vivendo. Un cambiamento che necessita soluzioni innovative e radicali. Per immaginarle è fondamentale proseguire il confronto. Ci auguriamo che questo scambio di articoli possa andare in questa direzione, così come ci auguriamo che l’appuntamento del 19 marzo a Bruxelles possa essere un piccolo ma importante tassello di tale percorso.