Dibattito sulla crescita/Le domande poste agli economisti progressisti mostrano lo scontro in atto tra un processo di crescita in una società di mercato e una visione alternativa di sviluppo della società. Una visione, quest’ultima, che richiede di spostare l’obiettivo sul lavoro e di prospettare un modello di consumo alternativo
Paolo Cacciari pone alla Rete europea degli economisti progressisti e al forum su “Un’altra strada per l’Europa” del 19 marzo a Bruxelles quello che ritiene una “domanda semplice”, ovvero se sia realistico “pensare di uscire da questa crisi affidandosi alla “crescita” (del Pil, è sempre sottinteso) e a “politiche espansive”. Nello sviluppo delle sue argomentazioni emergono altre due questioni dall’apparenza “tecniche”, ma, a mio avviso, dense di prospettiva politica; ovvero se “per aumentare l’occupazione bisogna far crescere la domanda interna” e se è necessario “l’aumento degli investimenti (“stimoli”, sgravi fiscali, opere pubbliche, ecc.) per far ripartire le imprese”.
Sono questioni latenti nel dibattito a sinistra e decisive non solo perché interessano, come lui dice, “le donne e gli uomini della strada … tra i banchi del mercato, sotto i cantieri delle “grandi opere …, in coda per ottenere un prestito …, alla ricerca disperata di un lavoro …”, ma perché mettono in evidenza i nodi del fare (o non poter fare) politica in questo particolare momento storico. Si tratta di questioni, tanto nodali quanto difficili, sulle quali una riflessione, approfondita e allargata, non può mai dirsi conclusa.
Delle diverse suggestioni offerte da Cacciari, mi riferirò solo ad alcune, quelle che a me sembrano stiano al fondo dei nodi politici che prospetta. Personalmente apprezzo l’inquadramento che egli dà del problema con il suo riferimento al pensiero stagnazionista americano degli anni Cinquanta in quanto mi sembra sia lo sfondo più adeguato per comprendere le politiche che vengono, o dovrebbero venire, avanzate nella presente “congiuntura” dal pensiero di sinistra. Va tuttavia ricordato – e lascio aperti gli spazi per un dibattito più approfondito – che gli stagnazionisti americani valutavano l’inevitabile decadenza economica dagli Stati uniti per lo spostarsi delle opportunità di investimento verso altri lidi (che sarebbero poi stati quelli dei paesi europei continentali). Se di stagnazionismo si deve parlare oggi esso si riferisce a quello dell’area atlantica (Stati uniti e Europa) che vedono spostarsi le opportunità di investimento verso alti lidi (i Bric), che ha immesso la società occidentale in un processo di ristrutturazione economica (e sociale) globale. Il riferimento alla stagnazione va allora presa sul serio per non ripetere la risposta politica americana degli anni cinquanta (maccartismo, guerra fredda, neocolonialismo economico …), altrimenti l’Europa corre il rischio – in questa “congiuntura” – di vedersi definitivamente catturata all’interno di in un orizzonte non rispondente alle sue aspirazioni di civiltà.
Come conciliare questa visione di lungo periodo con proposte per affrontare la presente “congiuntura”? Come vanno interpretate le scelte concrete che da sinistra si stanno formulando sulla “crescita” e sugli “investimenti”? La risposta è evidente se si tiene conto che esse hanno costantemente presente la “qualità” di questi processi per quanto questo orientamento, pur nella sua apparentemente ovvietà, presenta problemi tutt’altro che semplici. Per comprenderne le difficoltà è sufficiente richiamare la necessità che una qualsiasi alternativa al modello attuale di produzione richiede di porre al centro degli obiettivi politici, prima che di politica economica, il “lavoro”, che non è solo occupazione ma è realizzazione personale e quindi richiede sussistenza di reddito, di vita e di consumo. Se la ristrutturazione in atto (nei paesi dell’occidente) si fonda sul “necessario” ridimensionamento del lavoro – di cui sono espressione la precarietà nel lavoro e l’immiserimento nell’attuale modello di consumo -, non vedo come la risposta alternativa non debba tentare di coniugare il momento difensivo del contenimento del processo di precarizzazione (piani del lavoro, quale quello di Airaudo-Gallino) con quello che, in prospettiva, fonda e allarga processi di “diverso” consumo (anche se non rilevati nel Pil). Privilegiare uno solo dei due lati della questione prefigura la sconfitta di qualsiasi processo che intenda contrastare il modello globale che avanza. Ma tenere assieme i due momenti incontra grande difficoltà in una società egemonizzata da un modello consumistico e in presenza di una politica (economica) che pone le sue priorità nell’impresa (nel capitale, finanziarizzato o meno) e non nel lavoro. Le speranze gorziane di una liberazione dal lavoro appaiono in questa fase qualcosa di non-dato, ma da costruire politicamente in controcorrente e in un macroambiente ostile.
È su questo terreno di scontro che si pone la questione dell’investimento, della costruzione della struttura economico-sociale del futuro. È ovvio, per quanto detto, che è attraverso queste decisioni che si può prefigurare concretamente uno sviluppo che privilegia il ben-essere e non solo il consumo di merci. È comprensibile allora quanta attenzione e impegno sia necessario per orientare la costruzione di strutture e l’accumulo di risorse (materiali, immateriali, ambientali, sociali e umane) per sostenere la qualità della vita e non solo la produzione (capitalistica di mercato). Per qualsiasi alternativa, è allora vitale un atteggiamento attivo in grado di influenzare il processo di accumulazione – il vincolo “reale” alle modalità di vita future – e gestire quel conflitto-compromesso, ancora a lungo necessario, per dare spazio, nell’attuale società di mercato, alla crescita di quel diverso modello alternativo di consumo che Paolo Cacciari delinea con pochi tratti nella parte finale.
Vi è un ulteriore punto rilevante. Giustamente viene ricordata l’esigenza di contrastare le attuali forme della finanza per ricondurla al ruolo auspicato di sostegno dell’economia “reale”. Al di là delle forme esorbitanti che questo meccanismo ha assunto, non va trascurato che la finanza è una componente essenziale del meccanismo di distribuzione-redistribuzione del valore prodotto ed opera come vincolo – come necessità “sociale” – per forzare la costruzione dell’assetto sociale. La finanza va messa in discussione in quanto meccanismo che struttura il modello di produzione e distribuzione del reddito; la sua crisi è la crisi di questo modello; la sua resilienza è la resilienza dello stesso.
La questione posta da Paolo Cacciari sottolinea, in sostanza, in questa fase “congiunturale” lo scontro (impari) in atto tra un processo di crescita di una società di mercato e una visione alternativa di sviluppo della società. Una visione, quest’ultima, che richiede di spostare l’obiettivo (lavoro, in luogo dell’impresa) e di prospettare un modello di consumo, e quindi di produzione, ad esso alternativi. È un classico del pensiero di sinistra, così come è altrettanto classica l’esigenza di comprendere, nel concreto, i vincoli macro e le difficoltà micro che si incontrano quando, per innovare le prospettive di vita, si debba ricercare un terreno comune di sperimentazione politica. Le domande che ha posto Paolo Cacciari sono importanti, ma altrettanto importante è costruire una risposta ad ampio raggio che permetta di individuare un percorso, prevedibilmente lungo e faticoso, per dare loro una vera e duratura risposta.