Democrazia ristretta/ Il deficit democratico europeo è un vizio d’origine o il risultato di un’involuzione autoritaria? La doppia sfida di Tsipras è quella di cambiare la sinistra e allo stesso tempo l’Europa, superando i nazionalismi. Intervista al sociologo Luciano Gallino
L’Europa di oggi sta scontando «un’involuzione autoritaria», ma è allo stesso una grande «dimensione politica che non possiamo in alcun modo permetterci di affossare». Non ha dubbi Luciano Gallino, sociologo all’Università di Torino, tra i promotori della lista di cittadinanza “Un’altra Europa” a sostegno della candidatura di Alexis Tsipras a Presidente della Commissione Europea in vista delle prossime elezioni europee del 25 e 26 maggio. A fine 2013 è uscito il suo ultimo saggio Il colpo di Stato di banche e governi – l’attacco alla democrazia europea.
Matteo Renzi, nella prefazione al saggio di Norberto Bobbio sulla differenza tra destra e sinistra, teorizza la scomparsa delle identità collettive. È pensabile ancora una democrazia in una società così frammentata?
Certamente sì, se ancora lo si vuole veramente. La democrazia teorizzata e realizzata dai neoliberali è una cattiva imitazione della democrazia. I popoli europei sono stati ingannati dai loro governi. È mancata una spiegazione intellettualmente onesta della crisi, delle suecause profonde. Gli economisti ci hanno lasciato solo concetti paludati di formule, incomprensibili ai più. Credo si possano tuttavia pensare nuove forme di democrazia diretta, non fosse altro per il fatto che quella rappresentativa non gode davvero di buona salute. Bisognerebbe però operare su più livelli. A livello di Unione europea, il Parlamento è l’unico organo che attualmente eleggiamo. Quest’ultimo però, pur disponendo del potere di veto, tende a non utilizzarlo a sufficienza e conta ancora davvero poco. Serve dunque una democrazia rappresentativa più strutturata.
In Italia le banche sono circa 700. Lei è tra i sei intellettuali promotori di una lista di cittadinanza in sostegno alla candidatura di Alexis Tsipras a Presidente della Commissione europea. Può essere l’inizio di un processo per far nascere davvero un’altra Europa?
Mi auguro davvero sia così. I primi segnali sono stati incoraggianti, segno di una sorprendente reviviscenza del processo democratico. Ora però inizia la fase più difficile. Si tratta di raccogliere nelle prossime settimane 150 mila firme e avremo bisogno di un impegno diffuso sul territorio. La candidatura di Tsipras ha il merito di riportare la nostra attenzione al nesso tra crisi economica e crisi della democrazia. E di farlo ponendo dinanzi ai nostri occhi un esempio concreto come la Grecia, che meglio rappresenta il dramma del fallimento delle politiche di austerità. Dove, secondo l’ultimo rapporto della rivista di medicina Lancet, molte famiglie non hanno più nemmeno i soldi per curare i propri bambini. Dobbiamo esserne consapevoli, ciò che è successo ad Atene potrebbe avvenire anche in altri paesi dell’area euromediterranea. Questi sono i costi di una democrazia autoritaria affidata alle tecnocrazie. L’Europa è una grande dimensione politica, che non possiamo permetterci in alcun modo di affossare. Dobbiamo recuperarne l’originario spirito federalista e pretendere che si sviluppi su ben altre direttrici. Basterebbe far applicare alcuni dei principi sanciti nei Trattati fondativi che rimandano alla partecipazione diretta e ravvicinata dei cittadini alle scelte politiche dell’Unione. Buoni propositi, rimasti finora inapplicati.
Crede sia possibile un’interlocuzione con le forze politiche socialdemocratiche che paiono aver smarrito la propria missione originaria?
Quella che oggi si chiama socialdemocrazia farebbe rivoltare nella tomba non pochi dei suoi illustri esponenti del passato. Se penso a quella tedesca, non dimentico che nella seconda metà del secolo scorso si è dimostrata in grado di introdurre grandi innovazioni in senso progressista. Poi però è arrivata l’Agenda 2010 e l’influenza del pensiero economico neoliberale ha preso il sopravvento. Nei primi anni duemila sono state approvate leggi che avevano come unico obiettivo quello di ridimensionare i capitoli principali della spesa sociale, così come sono state adottate politiche attive del lavoro che partivano dal presupposto secondo il quale se qualcuno era disoccupato lo era per propria responsabilità. Gli effetti sono stati quelli di una drastica segmentazione del mercato del lavoro tedesco e una forte moderazione salariale. Oggi in Germania si contano 7,3 milioni di cosiddetti mini-jobbers che lavorano 15 ore alla settimana per guadagnare 450 euro al mese e solo i più fortunati riescono a sommare più lavori. Altri 7,5 milioni di lavoratori hanno sì un contratto a tempo indeterminato ma lavorano per meno di 6 euro all’ora. Basterebbero questi dati a farci capire che negli ultimi due decenni i socialdemocratici in realtà hanno smesso di tutelare i più deboli.
Cosa pensa della candidatura di Martin Schulz?
Ho letto che si è detto contrario alle modalità con cui si sta costruendo l’Unione bancaria e qualche giorno fa la Commissione affari economici di Strasburgo ha approvato una mozione su questo. Non solo, la stessa commissione ha approvato anche una risoluzione che chiede la costituzione di un Fondo monetario europeo che rimpiazzi la Troika. Mi sembra si tratti di decisioni in controtendenza rispetto agli orientamenti dell’attuale ministro dell’Economia tedesco, Wolfang Schäuble, con il quale la Spd governa. Fatti non trascurabili, ma ancora insufficienti.
Nel suo ultimo libro ha teorizzato un «colpo di stato» da parte di banche e governi.
Ci sono molti studi che arrivano a questa conclusione. Si parla in un’involuzione autoritaria in cui decisioni di grande importanza, in questi anni, sono state prese da un numero ristretto di tecnici. Ciò che è avvenuto ricalca quello che la teoria politica definisce a tutti gli effetti un «colpo di Stato», dove parti dello Stato che non ne avrebbero il diritto si arrogano poteri fondamentali attinenti alla sovranità costituzionale dello Stato medesimo. Il sistema finanziario ha preso il potere, in nome di una presunta eccezionalità, imponendosi ai governi nazionali e alla politica.
Possiamo immaginare nuove forme di democrazia a livello locale da cui ripartire?
Un terreno potrebbe essere quello della lotta alle privatizzazioni dei servizi di pubblica utilità. Molte analisi ormai lo affermano senza alcun timore di sorta: sono operazioni inefficienti dal punto di vista economico. Come sosteneva Hannah Arendt, la democrazia senza partecipazione non conta niente. Quello che conta maggiormente è il luogo democratico dove si forma l’agenda politica di una comunità, sia essa un comune, una regione, una nazione o un continente. Pensando agli enti locali di maggior prossimità, ci vorrebbero dei consigli comunali dove il primo obiettivo fosse quello di favore la discussione, il confronto aperto tra visioni diverse della società. Luoghi dove estrapolare e aggregare la conoscenza locale. La questione di fondo però è che i cittadini organizzati danno fastidio e la velocità dei processi economici considera i procedimenti democratici più un ostacolo che un’opportunità. Stiamo assistendo dunque a un’involuzione autoritaria. Non ci si può stupire allora che la cancelliera tedesca Angela Merkel, ma anche Van Rompuy e Olli Rehn, auspichino una democrazia «market conform».