Il problema vero non è quello che il Pil conteggia, ma quel che rimane fuori dal conteggio. Perciò si può migliorare il Pil tenendo conto dei costi e benefici esterni provenienti dall’ambiente
Ammontano a quasi 50 miliardi di euro all’anno i danni ambientali e sanitari delle attività di imprese e famiglie, pari al 3,1% del Pil: è quanto emerge da uno studio sui costi esterni ambientali e sanitari delle emissioni in atmosfera che, fra l’altro, ha stimato i fattori correttivi del Pil dei settori dell’economia italiana secondo la classificazione Nace. Lo studio è stato realizzato dalla società di ricerca e consulenza economica Ecba Project, specializzata nella valutazione delle esternalità ambientali e nell’analisi costi-benefici.
I risultati dello studio sono stati illustrati con due articoli pubblicati nella seconda metà del 2013 da Nuova Energia, rivista bimestrale dello sviluppo sostenibile.
In questo articolo vogliamo evidenziare il significato dell’indagine di Ecba Project in relazione al dibattito in corso sugli indicatori di benessere, in “superamento” del Pil, un dibattito che la campagna Sbilanciamoci! ha avuto il merito di avviare sin dal 2003, proponendo fra l’altro un sistema di indicatori sulla qualità dello sviluppo e della vita nelle regioni italiane, comprensivo di indicatori economici (Quars).
Alcuni autori, come di recente Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini, criticano i “paradossi morali” del Pil, ovvero il fatto che il Pil contabilizzi con uguale criterio la ricchezza derivante da “business etici” e “non etici” (ad esempio gli interventi di prevenzione del rischio idrogeologico e le attività di ripristino dopo un terremoto disastroso), come se ci fossero attività economiche di serie A e di serie B. A nostro parere il valore economico creato dai mercati, cioè dalle concrete persone che lavorano e consumano, va rispettato. Semmai quel che va distinto ed evidenziato è il ruolo delle esternalità nello svolgimento delle attività economiche: tutte le spese ambientali svolgono una funzione sociale, in quanto sono sempre finalizzate a ridurre al minimo l’insorgenza nel tempo di esternalità – ambientali e sociali – ben più grandi. Quel che si spende è il minimo necessario per mantenere un minimo di funzionalità del capitale naturale ed evitare l’insorgenza nel tempo di danni notevolmente maggiori. Se non si spendesse nel ciclo dei rifiuti bruceremmo spazzatura nelle piazzole di quartiere con emissioni di diossine mille volte superiori a quelle oggi riscontrate in traccia; se non si facessero le bonifiche, i danni sanitari a lungo termine sarebbero ingenti; se non si investisse nelle rinnovabili e nell’efficienza energetica le emissioni di gas ad effetto serra sarebbero maggiori. Certo, per la prevenzione ambientale si potrebbe spendere di più, se solo quei danni potenziali fossero valutati e recepiti in un’analisi costi-benefici che è invece puntualmente elusa dalla politica.
Quel che troppo spesso si dimentica, nel criticare il Pil, è il peso delle esternalità che si generano nel funzionamento di un’economia. Il problema vero, a nostro parere, non è quello che il Pil conteggia, ma quel che rimane fuori dal conteggio del PIL, per l’appunto le esternalità. Rimanendo escluse dal PIL, le esternalità non trovano alcuna considerazione nella presa di decisioni di sostenibilità economica, sociale e ambientale. Finché le esternalità non saranno adeguatamente quantificate, integrate nella contabilità economica nazionale e rese oggetto di obiettivi di politica economica (volti alla riduzione delle esternalità), in aggiunta agli obiettivi convenzionali di bilancio, occupazione e crescita, non sarà possibile ridurre in maniera economicamente efficiente le spese ambientali, siano esse difensive o preventive, che sono a nostro parere correttamente considerate dal Pil.
Un altro filone di pensiero esprime una critica ancor più radicale del Pil, ed è favorevole ad una sua “rottamazione” a favore di un sistema alternativo di indicatori di benessere e di qualità della vita (evidentemente privi del Pil). Questo filone, a nostro parere, si “dimentica” della natura stessa del Pil come indicatore: il Pil non ha mai avuto la pretesa di misurare il benessere in generale (ad es. la “felicità”), è sempre e solo stato un indicatore di benessere economico. Commetteremmo un grosso errore di prospettiva se pretendessimo di misurare lo sviluppo economico con un indicatore non economico sostitutivo del Pil, o con un set di indicatori di benessere alternativo al Pil.
Quel che possiamo fare è semmai di riformare il Pil, migliorando la sua capacità di misurare il benessere economico. Dobbiamo però essere consapevoli che è necessario rimanere nell’ambito della prospettiva economica, della misurazione del valore economico secondo i protagonisti dell’economia, che non sono i “mercati”, ma persone concrete e le organizzazioni sociali e istituzionali in cui le persone operano.
L’indagine di Ecba Project dimostra che possiamo correggere il PIL includendo non solo i costi e i ricavi delle attività produttive ma anche i costi esterni ambientali e i benefici esterni delle attività stesse, in particolare recependo gli avanzamenti nella teoria e la diffusione delle applicazioni empiriche sulle esternalità ambientali. In questo, la prospettiva economica può e deve continuare a integrare tutte le discipline che concorrono alla misurazione del benessere economico, ad esempio proponendosi come aggregatore dell’informazione prodotta mediante l’applicazione della modellistica ambientale (che, ad esempio, fonde ingegneria, chimica, demografia, epidemiologia, ecologia, e molte altre discipline). Anche la recente riforma legislativa delle modalità di spesa pubblica in conto capitale (DLGs 228/2011 E DPCM 3 agosto 2012), che ha reso obbligatoria l’analisi costi-benefici ai fini della valutazione ex ante degli investimenti pubblici e della programmazione della spesa in conto capitale dei Ministeri, testimonia che il miglioramento del Pil come indicatore non è più solo un tema di dibattito intellettuale, ma una riforma a portata di mano, capace di incidere immediatamente sulle nostre scelte di vita. Dobbiamo riconoscere che non è l’economia in sé da rottamare (a favore dell’emergere di nuove discipline), ma una visione dell’economia cieca di fronte all’evidenza del peso delle esternalità nella nostra vita quotidiana: quando respiriamo aria malsana, quando rimaniamo bloccati in coda, quando non riusciamo a dormire per il rumore, quando incorriamo in un incidente, quando non vediamo più lucciole di notte e le api non tornano a sciamare. Non abbiamo alternative se non il rinnovamento del Pil, perché l’economia – finché esiste il valore economico – è solo una prospettiva sulla felicità, non la felicità.
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