L’emergenza colpisce ancora più duramente le persone meno protette. Ma per il momento non esistono indicazioni del governo sull’organizzazione e l’erogazione dei servizi sociali in questa fase di crisi. E cento associazioni scrivono a Conte per chiudere Cas, Cara, hotpsot, a favore di un’accoglienza diffusa.
Si fa presto a dire “state a casa” per fermare il contagio, quando ci sono molte persone che una casa non ce l’hanno. Quanti sono, a dire il vero, non si sa.
L’ultima indagine statistica sulla realtà degli homeless in Italia risale al 2015, quando l’Istat ne ha censiti poco meno di 55 mila. Ma anche secondo la federazione Fio.PSD (raggruppa 130 associazioni grandi e piccole che si occupano di chi vive in strada, è una organizzazione laica a cui hanno aderito anche i comuni di Torino, Milano, Bologna, Napoli, Palermo, un terzo dei soci provengono dalla Caritas) si tratta di una cifra sottostimata. La crisi economica e l’emergenza sfratti, la mancanza di una politica sociale per il diritto alla casa, e in più i due decreti Sicurezza del passato governo gialloverde, uno dei quali convertito in legge, hanno sicuramente aggravato il fenomeno e dilatato in modo consistente la popolazione che vive in strada. “Ma una stima credibile più recente non esiste”, confermano alla Fio.PSD, chiedendo l’abolizione dei decreti Sicurezza.
Negli ultimi anni, nel panorama metropolitano di Roma non è insolito trovare persone, anche intere famiglie con figli minori, che vivono in un camper o in una roulotte piazzata dentro un parcheggio appartato, sotto un ponte o cavalcavia, anche in zone centrali della città. Per loro le misure previste dalle autorità, e ripetute in televisione a refrain, per fermare il Covid-19 – come lavarsi spesso le mani, igienizzare gli ambienti, mantenere le distanze di sicurezza – sono impossibili da rispettare. Alcuni dei senza casa nelle grandi e medie città sono italiani, molti sono stranieri, spesso abbandonati in strada dopo essere stati espulsi a fine anno dai centri di accoglienza per effetto dei decreti tanto cari all’ex ministro dell’Interno: senza documenti, senza residenza, senza medico di base, senza accesso all’anagrafe del Servizio sanitario nazionale. Lo Stato, tanto impegnato nel contrastare il Covid-19, di loro si è letteralmente lavato le mani. Senza rendersi conto che, oltre ad avere come tutti diritto alla tutela della salute, questa popolazione più vulnerabile lasciata a sé stessa non può combattere la stessa battaglia anti-contagio di chi un tetto sulla testa ce l’ha.
Il governo sembra incanalare tutta la sua attenzione solo sugli aspetti epidemiologici della pandemia e sugli effetti economici che la necessaria fermata delle industrie e delle attività non essenziali possono riflettersi sul tessuto produttivo e finanziario del Paese. E così il gruppo di crisi di Palazzo Chigi si è dimenticato di fornire indicazioni a livello nazionale per quanto riguarda i servizi sociali, e quindi anche per la messa in sicurezza dei senza dimora. Nel decreto Cura Italia è prevista solo la generica liceità, lasciata ai volontari delle associazioni caritatevoli e del terzo settore già impegnati in questa attività, a continuare nell’espletamento dei loro servizi, come fornire pasti caldi o un letto in un dormitorio agli homeless o portare la spesa agli anziani. Come se non esistessero più i livelli assistenziali di prestazioni sociali, che seppure non specificati nel dettaglio dalle Regioni, vengono riconosciuti come “servizi essenziali” dalla legge 328 del 2000. Non si tratta solo degli homeless, dei migranti, del potenziamento dei controlli sanitari e delle sanificazioni dei campi Rom. Si tratta di tutti i servizi sociali territoriali che al momento invece di essere potenziati per proteggere le fasce più deboli della popolazione, sono inspiegabilmente chiusi, al più relegati alle associazioni di volontariato. È così per i pazienti psichiatrici, per le famiglie che hanno bisogno del supporto della rete di assistenti sociali, per i disabili e per gli anziani che non hanno la possibilità di fare ore di fila davanti a un supermercato o a una farmacia. Servizi che se fossero incrementati potrebbero, non solo dare sollievo e aiutare la battaglia contro il contagio, ma anche, attraverso un apposito protocollo e un potenziamento dell’assistenza domiciliare, aiutare le persone in quarantena o in isolamento preventivo a casa.
Al momento i Comuni, che dovrebbero implementare i servizi sociali, procedono in ordine sparso, quando fanno qualcosa. Così sulla riviera romagnola la sindaca di Riccione, Renata Tosi (Pd), utilizza gli alberghi rimasti vuoti e messi a disposizione dagli albergatori, per garantire i pasti soltanto al personale medico e infermieristico. Tosi non esclude, tramite organizzazioni di volontariato, di utilizzarli per fornire un letto e un ambiente igienico ai senza casa e alle persone in quarantena. In realtà il decreto Cura Italia le darebbe questa possibilità, per contrastare l’emergenza coronavirus. E infatti il sindaco di Milano Giuseppe Sala ha annunciato la requisizione di hotel vuoti per trasformarli in hub per le quarantene. Ma, come dicevamo, manca una regia. Così il sindaco di Castel Volturno Luigi Petrella (centrodestra) non trova di meglio che chiedere l’impiego preventivo dell’esercito per contrastare una supposta rivolta dei 15 mila migranti che solitamente lavorano, per paghe da fame, nelle campagne.
Nel frattempo oggi un centinaio di associazioni del terzo settore – tra cui Asgi, Mediterranea, Sos Méditerraée Italia, Lunaria, Libera, Focsiv, Arci, Emergency, Legambiente, Libera, Fondazione Pangea di Milano, Cledu di Palermo, Solidaria di Bari, Pax Christi – inviano una lettera al governo. La lettera inizia sottolineando come “nei periodi di crisi gli effetti delle diseguaglianze sociali e sostanziali si fanno ancora più evidenti” e denuncia come i diritti dei cittadini e delle cittadine più fragili siano messi a rischio nella gestione Covid-19 se non si interviene immediatamente. In particolare le cento associazioni chiedono la chiusura dei centri di medie e grandi dimensioni per migranti (Cas, Cara, Hub, Cpr e hotspot), in quanto strutture “non idonee a garantire la salute degli ospiti e neanche degli operatori impegnati all’interno, oltre a non garantire neanche la salute collettiva”. Tra l’altro, sono molte le segnalazioni – si legge nella lettera – di chiusure totali del centri e di una privazione totale della libertà di spostamento dei migranti e rifugiati, anche per lavoro o salute, ben oltre le prescrizioni di legge.
Si denuncia la totale assenza di presidi sanitari – mascherine e gel igienizzanti – ma si chiedono soprattutto controlli medici e supporti psicologici. Per le strutture fino a 300 posti c’è solo un medico reperibile per 24 ore a settimana, con orario dimezzato per i centri fino a 150 ospiti, diventati internati. Con nessuna misura di distanziamento nelle mense interne o nei locali dormitorio. Una bomba sociale sulla quale neanche i prefetti, a quanto pare, intervengono. Perciò le associazioni si rivolgono al governo formulando un elenco di proposte, prima delle quali favorire uno svuotamento dei centri attraverso un potenziamento dell’accoglienza diffusa (gli ex Sprar ora Siproimi) e l’attivazione dei programmi già adottati per l’emergenza freddo. Inoltre si chiede una campagna di informazione multilingue (più capillare di quella che ha lanciato intanto Arci) su ciò che sta avvenendo e la spiegazione delle misure anti contagio. Si chiede poi la piena anagrafe sanitaria per tutti i migranti, il blocco degli ingressi nei Cpr e negli hotspot come Lampedusa, i ricongiungimenti familiari per via telematica e, last but not least, l’abrogazione dei decreti Sicurezza (qui il documento in versione integrale).